3.7.16

Vitamina B12 - PiattoVeg

Vitamina B12 - PiattoVeg

Vitamina B12

La vitamina B12, in natura, non è prodotta né dai vegetali né dagli animali, ma dai batteri, che si trovano nel terreno o nell'acqua.

Erba e terra

Mentre in natura essa viene quindi assunta dagli animali (uomo incluso, quando viveva in natura) con l'ingestione di cibi vegetali contaminati, in uno stato non di natura come quello odierno, essa non può venire assunta in questo modo, a causa delle indispensabili operazioni di igienizzazione oggi applicate. Essa deve venire quindi prodotta con apposite coltivazioni: i batteri in grado di sintetizzare la vitamina B12 sono coltivati su un substrato di carboidrati e la vitamina che producono viene prelevata e usata nell'alimentazione umana e animale.

Di fatto, la maggior parte della vitamina B12 così prodotta viene usata nei mangimi degli animali d'allevamento (cui, com'è noto, vengono somministrati anche molti altri integratori, farmaci, e tutte le sostanze chimiche residue delle coltivazioni) ed è solo grazie ad essa che gli animali assumono questa vitamina che poi si ritrova nelle loro carni e altri "prodotti" (latticini e uova). Chi non consuma prodotti animali assume invece la vitamina B12 in modo diretto, vale a dire quella prodotta dai batteri coltivati, che viene commercializzata in forma di compresse di integratore oppure nei prodotti fortificati (latti vegetali, succhi di frutta, cereali per la colazione, ecc.).

Si tratta di un nutriente critico per molte categorie di persone:

  • per gli onnivori che seguono una dieta aderente alle linee guida internazionali e che quindi consumano quantità di carne non elevate;
  • per i latto-ovo-vegetariani, che comunque non possono ricavare abbastanza vitamina B12 da latte e uova, a meno di non assumerne una quantità altissima e quindi molto dannosa;
  • per i vegani, che non assumono alcun derivato animale;
  • anche in caso di consumo smodato di carne, per tutti coloro che hanno difficoltà ad assimilarla dai cibi animali e hanno bisogno di assumere direttamente quella di sintesi batterica;
  • per tutti coloro che hanno superato i 50 anni, perché a questa età è diffuso il sopra citato difetto di assorbimento;
  • per coloro che assumono alcuni tipi di farmaci (metformina, antiacidi, ecc).

Per tutte queste persone è necessario consumare la vitamina B12 prodotta dai batteri, che si trova negli integratori in commercio.

In sostanza, solo coloro che consumano carne in modo smodato, con tutti i rilevanti rischi del caso, non hanno più di 50 anni e non hanno difetti di assorbimento possono ricavare la vitamina B12 dai prodotti animali, che deriva sempre e comunque da quella sintetizzata dai batteri. Le altre persone devono invece assumere direttamente quella prodotta dai batteri.

Nel grafico del PiattoVeg, la vitamina B12 è stata posta al centro del piatto, assieme alla vitamina D, a significare una particolare attenzione verso queste due vitamine.

La vitamina B12 è particolarmente importante nelle donne in gravidanza e allattamento e nei bambini dallo svezzamento in avanti (vedi indicazioni specifiche più oltre).

Essa interviene nella replicazione cellulare e nel metabolismo delle proteine e dei grassi: pertanto la sua carenza provoca danni a carico del sistema nervoso, centrale e periferico. In presenza di livelli bassi o normali di acido folico (nutriente questo molto ben rappresentato nelle diete a base vegetale rispetto a quelle onnivore) la sua carenza può dar luogo ad anemia (anemia megaloblastica).

Il secondo aspetto che rende importante avere un livello corretto di vitamina B12 nel sangue è che essa serve a mantenere bassi i livelli di omocisteina: livelli alti di omocisteina sono stati associati a malattie cardiovascolari, tumori, demenza e depressione.

Le quantità di vitamina B12 in dose di mantenimento sono molto variabili a seconda delle frequenza di assunzione (in modo non proporzionale). Le indicazioni più aggiornate raccomandano, nell'adulto:

1. minimo 3 assunzioni che forniscono 2 mcg ciascuna (totale 2+2+2 mcg al dì) consumate nel corso della giornata, in più riprese (almeno 3) da varie fonti alimentari (prodotti forticati)

oppure:

2. non meno di 50 mcg, in unica assunzione giornaliera, da un integratore, in compresse sublinguali o masticabili.

oppure:

3. non meno di 1.000 mcg, in due assunzioni distinte settimanali (totale settimanale 1.000 mcg x 2), da un integratore (preferibilmente sublinguale, tenendo conto della variabilità dell'assorbimento a partire da dosi molto elevate).

Chiaramente, il caso 1 è molto difficile e scomodo da realizzare, mentre i casi 2 e 3 sono i più semplici.

Sul sito di Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana è presente un elenco di prodotti disponibili sul mercato.

Si precisa che queste indicazioni sono valide solo per la vitamina B12 in forma di cianocobalamina, in quanto non sono disponibili in letteratura riferimenti che permettano di fornire indicazioni sulle altre forme di vitamina B12 disponibili sul mercato (ad esempio metil-cobalamina).

Il dosaggio riportato è quello per i casi di livelli normali di vitamina B12, mentre i casi di carenza vanno affrontati con una "dose d'attacco" per qualche mese, fino a che i livelli tornano normali e si può passare alla dose di mantenimento. La carenza si determina attraverso le analisi de sangue, dosando i valori di: emocromo, vit. B12, folati, omocisteina. Tali valori vanno esaminati da un medico competente (si può avere un parere competente e gratuito dai medici di Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana - SSNV scrivendo a domande@scienzavegetariana.it) per determinare lo stato di carenza.

I valori considerati ottimali per vitamina B12 e omocisteina sono (indipendentemente da quanto riportato sul foglio dei risultati delle analisi, che riporta sempre valori minimi e massimi non corretti):

  • vit. B12: almeno 488 pg/ml
  • omocisteina: inferiore a 12 mcmol/L

Vitamina B12 in gravidanza e allattamento

Il dosaggio di integratore da assumere in gravidanza e allattamento è lo stesso che nelle altre fasi della vita, ma l'assunzione dell'integratore è ancora più importante in questa fase, perché una eventuale carenza si ripercuote sul bambino in modo molto più pesante che sulla madre e può avere ripercussioni sulla formazione del sistema nervoso e delle cellule del sangue.

Quindi, se non stai integrando la vitamina B12 e sei in gravidanza (o ne stai programmando una), è necessario effettuare subito le analisi del sangue come sopra indicato, per determinare il corretto dosaggio di integratore da assumere.

Vitamina B12 nel divezzamento

Il latte materno, quando presente in alta quantità nella dieta, può essere una fonte di vitamina B12 eccellente, a patto che, naturalmente, la madre assuma gli integratori nella giusta dose. Anche il latte di formula è sempre arricchito di vitamina B12 ed è sufficiente al bambino se presente nella dieta nella quantità di almeno 500-600 ml al giorno.

Con la diminuzione delle quantità di latte durante il divezzamento, queste fonti non sono più sufficienti e va quindi iniziata l'integrazione. Non vi è alcun rischio legato a possibili assunzioni in eccesso, mentre sono ben documentati gli effetti gravi di una carenza di vitamina B12 in questa fase della vita.

La forma più comoda è quella fornita dagli integratori in gocce: consulta l'elenco aggiornato, con le corrispondenti dosi nelle varie fasce d'età disponibile sul sito di SSNV.

B12

La carenza si determina attraverso le analisi de sangue, dosando i valori di: emocromo, vit. B12, folati, omocisteina. Tali valori vanno esaminati da un medico competente (si può avere un parere competente e gratuito dai medici di Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana - SSNV scrivendo a domande@scienzavegetariana.it) per determinare lo stato di carenza.

I valori considerati ottimali per vitamina B12 e omocisteina sono (indipendentemente da quanto riportato sul foglio dei risultati delle analisi, che riporta sempre valori minimi e massimi non corretti):

  • vit. B12: almeno 488 pg/ml
  • omocisteina: inferiore a 12 mcmol/L

2.7.16

Il lato buono dei tassi a zero: la finanza riscopre l’economia reale - Il Sole 24 ORE

Il lato buono dei tassi a zero: la finanza riscopre l'economia reale - Il Sole 24 ORE

Il lato buono dei tassi a zero: la finanza riscopre l'economia reale

I lavoratori del gruppo Diageo hanno preso un po' troppo alla lettera il detto «bevo per dimenticare». Per scordare gli effetti nefasti dei tassi a zero, il loro fondo pensione ha infatti deciso di investire (attraverso un complesso schema finanziario) in 2,5 milioni di botti di Scotch whisky. Allianz Global Investors, con lo stesso obiettivo di esorcizzare la iattura dei tassi a zero, ha preferito investire parte dei patrimoni che gestisce comprando parcheggi su strada a Chicago. Munich Re, piuttosto che lasciare la liquidità in Bce a tassi negativi, ha scelto invece di puntare sul vecchio «materasso»: ha preso 10 milioni di euro in banconote e li ha messi al sicuro lontani dalla Bce. Ma c'è anche chi investe in ferrovie, in ospedali, in energie rinnovabili. Pesino chi, come il gruppo Dairy, in magazzini di formaggio.

Nell'era dei tassi a zero, o addirittura sotto zero come ormai tocca a circa 10mila miliardi di dollari di titoli di Stato globali, solo una cosa offre ancora qualche speranza di rendimento per i grandi investitori: la fantasia. Assicurazioni, fondi pensione, fondi comuni sono costretti a esplorare nuove frontiere pur di portare a casa qualche rendimento accettabile per i loro sottoscrittori. «Comprare Bund tedeschi a tassi negativi non è più da considerare un investimento sicuro - commenta laconico Tobias C. Pross, managing director di Allianz Global Investors -. Per questo noi gestori dobbiamo trovare investimenti diversamente sicuri». Nuove strade, alternative. Nuove frontiere.

L'occasione dei tassi a zero è dunque ottima per dirottare sempre più capitali finanziari dove servirebbero: cioè nell'economia reale, nelle infrastrutture, nelle piccole imprese innovative, nello sviluppo dell'energia pulita, nell'acqua. Ma il rischio è che, senza normative chiare a livello internazionale (si veda articolo sotto), questa fame di rendimenti «alternativi» finisca solo per creare le ennesime bolle speculative. Sta alla politica internazionale creare l'ecosistema adatto per favorire, in questo mondo dei tassi a zero, lo sviluppo di investimenti alternativi per assicurazioni e fondi pensione ma contemporaneamente utili per tutti gli altri. Il tema è all'ordine del giorno al G20. Ma la soluzione è ancora lontana.

Le nuove frontiere

Che la ricerca spasmodica di rendimenti stia spingendo sempre più investitori istituzionali verso lidi sconosciuti lo confermano, prima ancora dell'aneddotica, i numeri. Secondo i dati di Willis Tower Watson, dal 2008 ad oggi i fondi pensione globali censiti hanno ridotto gli investimenti tradizionali in azioni e obbligazioni, per aumentare dal 19% al 24% del totale in gestione gli investimenti alternativi ai mercati finanziari: dal settore immobiliare a quello delle infrastrutture. Su un campione diverso e su un concetto diverso di investimenti «alternativi», anche dall'Ocse arriva a un messaggio simile: i grandi fondi pensione hanno portato l'allocazione di risorse in asset alternativi dal 14,3% del 2010 al 15,3% del 2014, mentre i fondi pensione pubblici sono passati dall'11,2% al 13,5%. La crescita maggiore è avvenuta negli Usa, Canada, Brasile, Gran Bretagna e Israele. Le società di riassicurazione, secondo una ricerca di Aon sul settore, hanno in gestioni alternative il 12% del loro capitale. E un sondaggio di BlackRock tra 201 grandi investitori globali racconta una storia analoga: il 46% di questi ha aumentato gli investimenti alternativi (principalmente nel settore immobiliare, delle infrastrutture e delle materie prime) negli ultimi 3 anni, e nei prossimi 18 mesi lo farà il 60% degli intervistati.

Ma sono soprattutto le testimonianze a dimostrarlo. «Ormai i grandi investitori non possono far altro che cercare alternative ai tassi a zero - spiega il gestore di una grande assicurazione -. Il problema è che le assicurazioni, per farlo, devono avere team specializzati nella gestione di questi nuovi rischi oppure devono delegare a terzi questo tipo di investimenti». Insomma, ancora non sono davvero preparate a esplorare le nuove frontiere. «Per sopravvivere nell'era dei tassi a zero, i fondi pensione o le assicurazioni hanno solo tre strade da percorrere - spiega Alberto Gallo, gestore di Algebris -. O tagliano i costi di gestione, per esempio usando Etf. O puntano su strategie davvero attive, quelle che non usano benchmark. Oppure vanno su investimenti illiquidi, come le infrastrutture».

Opportunità globali

È evidente che questo trend possa avere una ricaduta positiva per l'economia reale: se si trovasse davvero il modo per far confluire una parte maggiore delle immense risorse presenti sui mercati finanziari nello sviluppo delle infrastrutture o nel finanziamento delle piccole imprese, si potrebbe trasformare un'esigenza finanziaria degli investitori in un volano per l'economia. C'è grande bisogno di agganciare, sempre più, i capitali finanziari al mondo reale. E i tassi a zero possono - devono - essere l'occasione per farlo. Anche perché per colmare il gap infrastrutturale che separa il mondo attuale da quello futuro, servono tanti - davvero tanti - soldi. E gli Stati, superindebitati, non li hanno.

Stima il G20 che da qui al 2030 a livello globale serviranno 57mila miliardi di dollari solo per sviluppare le infrastrutture (strade, ferrovie, porti, aeroporti, energia pulita, acqua e telecomunicazioni) di cui il mondo avrà bisogno. Purtroppo i bilanci statali difficilmente potranno sostenere un tale sforzo. Servono, dunque, capitali privati a supporto dell'impegno pubblico. Secondo Standard & Poor's, se messi nelle condizioni giuste gli investitori istituzionali mondiali potrebbero mettere in infrastrutture la bellezza di 200 miliardi di dollari l'anno, che diventerebbero 3.200 miliardi entro il 2030. Cifra non sufficiente per colmare il vuoto che gli Stati non possono riempire (S&P stima 500 miliardi l'anno), ma comunque si tratta di un passo avanti.

Per raggiungere questi numeri, e per riportare finalmente la finanza al servizio del mondo reale, servono però sforzi normativi importanti. Non basta il piano Junker in Europa o qualche normativa estemporanea. Gli investitori istituzionali di lungo periodo (principalmente assicurazioni e fondi pensione) hanno circa 100mila miliardi di attivi in gestione, ma attualmente (pur in crescita) mettono solo poco più dell'1% in infrastrutture. Questo perché le normative, soprattutto quelle prudenziali di Basilea per le banche e di Solvency per le assicurazioni, continuano a disincentivare l'investimento in infrastrutture. Serve dunque una normativa globale organica, che crei un ecosistema favorevole e riduca i rischi che questi investimenti comportano. Al G20 (si veda articolo sotto) se ne parla da tempo. Prima che si moltiplichino gli investimenti in Whisky o in banconote fruscianti, prima che chi ha investito in forme di formaggio veda "ammuffire" il proprio patrimonio, sarebbe meglio raggiungere la quadra.

© Riproduzione riservata

Tassi zero, è il momento delle infrastrutture - Repubblica.it

Tassi zero, è il momento delle infrastrutture - Repubblica.it

Tassi zero, è il momento delle infrastrutture

La Bce, con la politica dei tassi negativi, ha ucciso le attività finanziarie senza rischio e, con esse, la gestione tradizionale dei portafogli. Nei giorni scorsi per la prima volta il rendimento medio ponderato dei titoli di Stato è passato in negativo. Tra poco, grazie all'estensione del Qe alle obbligazioni societarie, anche i titoli emessi dalle aziende più grandi e solide diventeranno di fatto inutilizzabili ai fini di un'allocazione di lungo periodo. Il problema che si pone non è tanto per la gestione della liquidità, quanto per le esigenze di pianificazione finanziaria di lungo termine. Esiste sempre l'alternativa estrema del denaro contante.

In Giappone, dove i tassi sono a zero da parecchi anni, si sta assistendo ad un boom della vendita delle casseforti. Ma è un'alternativa impraticabile da quelle istituzioni finanziarie, come i fondi pensione o le assicurazioni, che sono preposte alla gestione dei grandi rischi che i risparmiatori devono fronteggiare nel corso del loro ciclo di vita. Se queste soluzioni "collettive" non sono più finanziariamente sostenibili, le conseguenze sociali ed economiche diventano preoccupanti. Non solo perché gli accresciuti bisogni di una popolazione sempre più anziana richiedono un ruolo maggiore delle forme di previdenza e di assicurazione private. Ma anche perché il risparmiatore razionale comprenderebbe la necessità di ridurre i consumi e aumentare il volume dei risparmi per ottenere la copertura desiderata. Un comportamento

virtuoso a livello individuale genererebbe un comportamento vizioso a livello collettivo, riducendo i consumi aggregati e provocando un'ulteriore caduta della crescita economica. Esattamente il contrario di ciò che la Bce di Mario Draghi cerca di ottenere con i tassi negativi.

Senza addentrarsi nella discussione sulle conseguenze macroeconomiche di una politica monetaria così aggressiva, viene quindi da chiedersi se sia possibile assecondare la spinta della Bce all'interno di un portafoglio disegnato per soddisfare esigenze di risparmio di lungo periodo, senza assumere posizioni adatte più al tavolo verde che ad una sana e prudente gestione. Una soluzione del puzzle potrebbe essere l'investimento diretto in un settore strategico dell'economia reale, quello delle infrastrutture. Porti, autostrade, reti distributive sono forme di investimento inadatte per il tipico fondo comune; ma sono ideali per il perseguimento di obiettivi temporali di lungo periodo, come quelli dei fondi pensione e delle assicurazioni Vita. I tempi di realizzazione di un nuovo tunnel ferroviario o di ammodernamento di una vecchia rete distributiva sono estremamente lunghi e richiedono un forte esborso iniziale. Questo significa che per parecchi anni la liquidabilità dell'investimento è praticamente nulla e di fatto aumenta solo dopo che il progetto è realizzato e gli introiti (pedaggi, royalties) iniziano a fluire. In compenso, fatto salvo per l'avvento di una tecnologia così disruptive da rendere obsoleta l'opera, questi introiti continueranno a fluire per decenni.

Le infrastrutture, tra l'altro, sono una variabile fondamentale nell'equazione della produttività, il cui crollo drammatico è "il" problema di tutte le economie contemporanee, non solo di quella italiana. E' evidente che, se non si fanno investimenti, la produttività continuerà a a peggiorare e per l'economia diventerà impossibile crescere a tassi sufficientemente elevati da assicurare la sostenibilità del welfare state. Le infrastrutture sono state tradizionalmente sviluppate dallo Stato. I vincoli di finanza pubblica, uniti ad una notevole miopia politica, hanno progressivamente ridotto gli investimenti pubblici a favore di manovre fiscali forse di maggiore resa elettoralistica ma di più corto respiro. In Italia, dal 2008 al 2015 la spesa in opere pubbliche è stata tagliata del 42,8% in termini reali, mentre la spesa corrente al netto degli interessi è cresciuta dell'11,7%

Nella Legge di Stabilità del 2016 si registra una prima inversione di tendenza, ma è poca cosa rispetto al terreno perso in tutti questi anni. Non è, come detto, un problema solo italiano. Si stima che, a livello mondiale, esista un gap annuo di 500 miliardi di dollari tra le necessità di infrastrutture e la quota che potrebbe essere finanziata dalla mano pubblica. Di questi, circa 300 miliardi potrebbero essere finanziati dalle banche, sempre più in difficoltà per il rispetto dei nuovi requisiti di capitale. Per i restanti 200, se non vogliamo rassegnarci ad una crescita zero virgola, bisogna trovare il modo di far partecipare gli investitori istituzionali. Come fare? E' necessario innovare nelle forme di partenariato pubblico- privato; dare certezza sui tempi di realizzazione delle opere e sulle regole di tariffazione futura; proseguire nell'allentamento dei vincoli e dei costi per assicurazioni e fondi pensione all'investimento "paziente". Ma bisognerebbe anche promuovere, nel caso italiano, una crescita della dimensione media dei fondi pensione. Delle 500 forme pensionistiche complementari, poco più della metà hanno meno di 1.000 iscritti. Portafogli così piccoli non consentono di diversificare il rischio di investimenti complessi come quelli in infrastrutture e, soprattutto, di sostenere i costi necessari per una loro
gestione consapevole. Bisogna rompere resistenze corporative, ma, parafrasando l'economista americano Lawrence Summers, se non ora, quando? I tassi sono nulli o negativi, è il momento migliore per ripristinare le infrastrutture usurate e realizzarne di nuove. Questo vale per chi persegue il bene pubblico, come lo Stato, e per chi persegue l'interesse di lungo termine del portafoglio dei propri clienti, come appunto le assicurazioni e i fondi pensione.