12.7.19

Quando Andreotti lesse (o rilesse?) il Memoriale di Aldo Moro - Corriere.it

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Corriere della Sera

i misteri e la fine della prima repubblica

Quando Andreotti lesse (o rilesse?)
il Memoriale di Aldo Moro

di Walter Veltroni
11 lug 2019

Rognoni: «Il presidente Dc vedeva la solidarietà nazionale come un modo per legittimare il Pci e creare l'alternanza. Quel delitto fu per l'Italia un vero e proprio colpo di Stato»

Virginio Rognoni, tu sei stato uno dei massimi dirigenti della Dc e il ministro dell'Interno succeduto a Francesco Cossiga dopo la morte di Moro. Che cosa era la Democrazia Cristiana? Che cosa è stata nella storia italiana?

«Non si capisce la Democrazia Cristiana se non con riferimento alla storia politica e civile del Paese. Non è un partito che nasce dal nulla. Durante il fascismo i cattolici antifascisti, per tradizione familiare e radicata convinzione, erano assoluta minoranza; la gran parte del mondo cattolico faceva massa intorno a Mussolini; erano gli anni Trenta; giusto gli anni del grande consenso; un patrimonio ingannevole che porta Mussolini definitivamente nelle braccia di Hitler. Finita la guerra, ma già prima, a ridosso del 25 luglio, c'è l'incontro dei vecchi "popolari" del partito di Sturzo, con De Gasperi in testa, e i giovani professori che venivano dalla Fuci e dai Laureati cattolici; queste due realtà si incontrano, vi confluiscono altri gruppi già clandestini, come i neoguelfi di Milano, e nasce il partito. Oggi si racconta che quella politica era in mano a vecchi, ma perché non ricordare che Aldo Moro arriva alla Costituente a 29 anni e Dossetti a 33, e che entrambi sono stati tra i costituenti più ascoltati e apprezzati?».

La Dc era un arcobaleno che copriva posizioni reazionarie e il loro contrario. Nella Dc poterono convivere Lima e Tina Anselmi, Sbardella e persone come te o Zaccagnini. Esclusivo prodotto della Guerra fredda?

«L'unità politica dei cattolici non era certamente un dogma e neppure una sorta di obbligazione morale; era semplicemente un fatto politico inevitabile in quel determinato momento. L'Italia è stata subito segnata da due grandi questioni, la questione cattolica e quella comunista; due realtà che contrapponendosi radicalmente hanno irrigidito il sistema, quasi bloccato. La questione comunista, con il richiamo allora fortissimo all'Unione Sovietica, al mito della Rivoluzione ha finito per arroccare la Dc ben oltre la sua cultura di partito. La Dc era diventata argine, diga contro il comunismo: un problema. Il contrasto tra De Gasperi e Dossetti circa il modo di interpretare la grande vittoria del 18 aprile mi è sempre parso come la denuncia di questo problema e giusta mi è sempre parsa la soluzione presa da De Gasperi. D'altro canto, il Pci non era semplicemente l'emanazione dell'Urss; non era il Partito comunista tedesco (tra l'altro messo fuori legge) e neppure quello francese o spagnolo; aveva alle spalle diverse culture e soprattutto era il partito che aveva contribuito alla rinascita della democrazia con un ruolo rilevantissimo nella Resistenza. Ma eravamo in quegli anni. E il mondo era separato in blocchi e aree di influenza. C'erano vincoli internazionali, appartenenze, alleanze militari, insomma la "Guerra fredda". Per la Democrazia cristiana, il Pci doveva essere combattuto e allo stesso tempo cooptato nel gioco democratico: da qui il riconoscimento di un'area, il cosiddetto "arco costituzionale", dove palese fosse la continuità di un legame tra tutti i partiti che avevano scritto la Costituzione. Un equilibrio non semplice, ma necessario, in un Paese di frontiera come l'Italia».

La Dc muore con la morte di Moro?

«Con Moro finisce la prima Repubblica. Ferma la pregiudiziale antifascista, Moro, con un'azione di carattere quasi pedagogico, era diventato protagonista del progressivo allargamento della base democratica del Paese. Esaurita la formula centrista, ecco i socialisti al governo, poi la solidarietà nazionale con i comunisti nella maggioranza parlamentare; a quel tempo, una vera e propria sfida alla stessa Dc e in campo internazionale. Moro non è mai stato vicino al compromesso storico di Berlinguer, una strategia che prevedeva l'unità al governo dei partiti popolari, quasi un ritorno all'alleanza dell'immediato dopoguerra prolungata nel tempo. Moro invece riteneva che per il Pci stare fuori dal governo, ma dentro la maggioranza, fosse un passaggio necessario di legittimazione democratica così da arrivare, senza strappi, all'alternanza. Un percorso confermato nell'intervista postuma a Scalfari. Moro sarebbe diventato presidente della Repubblica e avrebbe accompagnato questa transizione per uno o due anni. Alle elezioni successive i due partiti si sarebbero presentati in conflitto. Una sorta di 18 aprile purgato di tutte le scorie, le durezze e le anomalie, nazionali e internazionali, del '48. Ma il Pci sarebbe stato così legittimato a governare, se avesse avuto i voti. Era un grande progetto, che avrebbe completato il disegno costituzionale. La morte di Moro ha impedito che si realizzasse».

Conosco la tua tesi e la condivido: il rapimento di Moro e il suo assassinio sono stati compiuti dalle Brigate rosse. Però Moro viene ucciso per far saltare il suo disegno. Quindi uno di quegli omicidi politici che cambiano il destino di un Paese...

«Ero convinto e lo sono ancora che il terrorismo delle Brigate rosse fosse nazionale, italiano, non eterocomandato da un "grande vecchio". Ho spesso discusso con Pertini; il Presidente riteneva che ci fosse una centrale straniera in ragione della posizione geopolitica italiana, al confine tra patto di Varsavia e Nato. Tanto è vero che quando fu sequestrato il generale Dozier mi telefonò preoccupatissimo: "Hai visto? Hai visto? Un generale americano". Come ministro dell'Interno io avvertivo l'assoluta necessità di seguire ogni congettura, nessuna esclusa; il mio compito, dopo via Fani e la tragedia di Moro, era che il Paese rimontasse la china, sconfiggesse il terrorismo senza uscire dalla democrazia e senza imbarbarire lo Stato. Il clima era pesantissimo, avevamo avuto un '68 diverso dagli altri Paesi. Il '68 italiano è stato una cosa eccezionale. Sia chiaro: il '68 esprimeva un bisogno di modernità, postulava uno sbocco politico che però non c'è stato. Il '77, con tutte le sue violenze, in fondo è la manifestazione drammatica di quella delusione. Dico questo anche perché quando sono arrivato al Viminale sentivo dentro di me quel grido, nato giusto in ambienti "sessantottini", "né con le Brigate rosse, né con lo Stato". Era un grido spaventoso, che poneva sullo stesso piano negativo le Br e lo Stato, uno Stato vissuto come lontano, sempre uguale, torbido».

Durante la Guerra fredda quelli che erano considerati nemici in un fronte non dovevano partecipare al governo dell'altro. Credo che questo abbia detto con rudezza Kissinger a Moro e anche Berlinguer viene messo nel mirino dai sovietici, fino all'attentato in Bulgaria. Moro e Berlinguer, ciascuno nei due campi, erano un'anomalia pericolosa. Ribadito che il rapimento Moro lo hanno fatto le Br tu non pensi che nei cinquantacinque giorni ci sia stato l'intervento di questi soggetti per evitare che Moro fosse liberato?

«Cominciamo col dire che nei cinquantacinque giorni probabilmente la linea della fermezza è stata inevitabile. Se fosse avvenuto il contrario le istituzioni non avrebbero retto. Ma la cosa grave non è stata la scelta della "fermezza". Lo scandalo — come qualcuno lo ha chiamato — è stato che per cinquantacinque giorni non si sia riusciti a trovare la prigione di Moro. Il Presidente non era prigioniero, che so io, in Alaska, era a Roma, nella capitale, e dalla prigione mandava continui messaggi, accorati e struggenti. Che poi questa incapacità sia stata in qualche modo "aiutata" da chi era contro la politica di Moro e il suo ruolo nel concerto internazionale non è affatto da escludere; troppo fitto era il bosco di personaggi inquietanti e pericolosi che giravano intorno all'intera vicenda».

Tu vieni nominato ministro dopo questo inaccettabile fallimento.

«La proposta è venuta da Zaccagnini e gli altri leader della maggioranza l'hanno condivisa. Al Viminale non volevo e non potevo fare "rivoluzioni". Tuttavia ero fermamente convinto che fosse necessario introdurre elementi di netta discontinuità rispetto alla passata gestione. Perché — mi domandavo — Cossiga aveva chiamato esperti stranieri sul terrorismo internazionale, americani o di altro Paese che fossero? Molto meglio, innanzitutto, rifarsi alla memoria di Polizia e Carabinieri. Di qui la scelta del generale dalla Chiesa, che bene già aveva conosciuto le prime Br di Curcio e Franceschini. Non bisognava perdere tempo. C'erano anche da governare l'ansia, le aspettative, la paura, la rabbia, la speranza della gente. Era impresa difficile; mai come in quel momento mi sono sentito ministro della convivenza civile: ministro "terzo" rispetto alle fortune e alle sfortune del proprio partito».

Tu mettesti alla porta Ledeen e Pieczenik. Perché erano stati chiamati?

«Veramente non è così; al Viminale da pochissimi giorni, sento trillare il telefono, d'istinto prendo la chiamata; chi era? Ledeen; mi diceva che vi erano ancora parcelle insolute per sue consulenze; per tutta risposta l'ho mandato a quel paese. Pieczenik non l'ho mai visto e conosciuto. Entrambi erano stati chiamati da Cossiga; purtroppo scelte sbagliate, prima ancora che inconcludenti».

Pieczenik ha detto testualmente: «Mi aspettavo che le Br si rendessero conto dell'errore che stavano commettendo — con il rapimento — e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro».

«Liberato dalle Br, dalla prigione dove era detenuto, Moro, libero, fa paura. È la sua parola che fa paura; la paura — l'immagine me la concedo — dei mercanti di essere cacciati dal tempio».

Nel comitato che ai tempi di Cossiga seguiva le indagini, erano quasi tutti iscritti alla P2. Undici su dodici.

«Pensare che intorno a Cossiga, nel comitato dei cinquantacinque giorni, ci fosse questa gente, forse la peggiore, è veramente doloroso, ma soprattutto inquietante».

Di Gladio tu sapevi?

«No; non ne sapevo nulla; l'ho saputo quando, verso la fine di luglio del '91, Andreotti andò in Parlamento a parlarne; a parlarne e a dichiararne senza mezzi termini lo scioglimento. Gladio era l'espressione italiana di una segretissima organizzazione denominata Stay behind che, in piena Guerra fredda, i Paesi della Nato avevano creato nell'ipotesi che l'Europa potesse essere invasa dalle truppe sovietiche: un primo punto di resistenza contro l'invasore. Cessata la Guerra fredda, con il superamento definitivo dei blocchi, simile organizzazione non aveva alcuna ragione per sopravvivere: così Andreotti. Subito scoppia il finimondo, l'ira di Cossiga è incontenibile, tutta la segretezza di Gladio è in frantumi, le polemiche non cessano. La mattina precedente il 4 novembre — da pochi giorni ero ministro della Difesa — mi telefona Cossiga: "Domani a Redipuglia devi difendere Gladio". Gli rispondo: "Francesco, a Redipuglia di Gladio non voglio parlare". Per me era inaccettabile che Gladio fosse stata tenuta nascosta a uomini di governo che avevano il diritto di conoscerne l'esistenza. Mi risulta che anche Fanfani non ne sapesse niente».

Ricordi l'attentato del '73 alla questura di Milano? A tirare la bomba fu quell'anarchico, che invece era stato in Gladio.

«Sì: anarchico e gladiatore e, se ben ricordo, informatore del Sismi».

Gladio è stata usata per condizionare la vita italiana?

«Escludo un impiego del genere. Il vero condizionamento è stato lo stragismo di destra: colpire nel mucchio per provocare una reazione autoritaria dello Stato».

Quindi non ritieni credibile che Gladio sia dietro e dentro alcune delle pagine di sangue di quegli anni?

«A parte il caso di Bertoli, con la bomba alla questura di Milano, non mi risulta la compromissione di altri esponenti di Gladio».

Il vero colpo di Stato in Italia fu l'assassinio di Moro?

«Le Br pensavano che il rapimento di Moro, il cosiddetto processo che ne è seguito e la sua uccisione avrebbero portato alla "rivoluzione", ritenuta ormai imminente, dietro l'angolo; i brigatisti erano rivoluzionari senza rivoluzione. Tuttavia un colpo di Stato c'è stato, perché con l'uccisione di Moro si ferma e si ribalta l'intera vicenda politica del Paese».

Descrivimi due personaggi che per me sono shakespeariani: Cossiga e Andreotti.

«Cossiga era un uomo politico di elevata e vasta cultura, una personalità singolare dalle analisi acute come certamente lo era, nel suo complesso, il messaggio inviato alle Camere immediatamente dopo la caduta del Muro di Berlino. Un messaggio che avrebbe dovuto essere preso in seria considerazione. Gli è nuociuto l'insieme delle sue debolezze e stravaganze che, ripetute, diventavano manie e ossessioni insopportabili. Mi ha sempre colpito e addolorato la sua solitudine».

E Andreotti?

«Andreotti non lo so descrivere, e questa credo sia la risposta più onesta. Come ministro di alcuni dei suoi tanti governi devo dire che ha sempre rispettato le proposte che gli venivo facendo: così la nomina del generale dalla Chiesa; non ha opposto alcuna riserva, pur sapendo io dei rapporti tutt'altro che buoni che egli aveva con il generale. Non una piega, ancora, quando, dovendo cambiare il capo della Polizia, scelsi un prefetto diverso da quello che mi aveva suggerito, e scelsi bene perché il candidato che mi proponeva è poi risultato appartenere alla P2. Era un uomo algido, di una freddezza impressionante. Quando gli portai le carte che gli uomini del generale dalla Chiesa avevano trovato il 1° settembre del 1978 in via Montenevoso, carte contenenti giudizi severissimi su di lui, egli le lesse imperturbabile; una lettura tranquilla, una trentina di minuti. Una volta finito, ha alzato gli occhi e ha detto solamente: "Eleonora era una Fucina come noi, una donna di straordinario valore". Nessun altro commento. Sembrava quasi che quelle pagine le avesse già lette: se fosse così sarebbe stato un vero e proprio uomo di teatro con il copione pronto per il caso che gli stava davanti...».

C'è qualcuno che ti manca, tra le persone che hai incrociato nella tua vita pubblica?

«Sì, Pietro Scoppola e Leopoldo Elia, cattolici democratici di straordinario spessore. Sono stati dalla parte giusta ma hanno sempre lavorato perché i democratici, dopo l'ottantanove, si ritrovassero insieme. E per liberare la democrazia dalle serrature, politiche e istituzionali, della Guerra fredda. Mi mancano, ma soprattutto mancano a questo Paese che pare si accontenti di uomini casuali».

11 luglio 2019, 21:55 - Aggiornata il 11 luglio 2019, 22:38

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Rino Formica: «La prigione di Moro? Lo Stato non ha voluto trovarla» - Corriere.it

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Corriere della Sera

i misteri e la fine della prima repubblica

Rino Formica: «La prigione di Moro? Lo Stato non ha voluto trovarla»

Da sinistra, Gianni De Michelis, Lelio Lagorio, Rino Formica e Bettino Craxi in uno scatto del 1984 (Foto Contrasto)
di Walter Veltroni
07 lug 2019

L'ex ministro: «Noi socialisti incontravamo persone che avevano contatti con i brigatisti: di questo avevamo informato il Quirinale. Dissi a Craxi di non andarsene dall'Italia, poi non l'ho più sentito»

Rino Formica, cominciamo con te, autorevole dirigente socialista, una serie di incontri per ricostruire la fine della prima Repubblica, assai più certa della nascita della seconda. Cos' era la prima Repubblica?
«L'Italia è stato un Paese di frontiera, ma di più frontiere. Frontiera Est-Ovest e poi Nord-Sud. È stato luogo di scambio tra due imperi, quello sovietico e quello americano. E aveva una frontiera in più, quella dello Stato del Vaticano. Infine vi era una frontiera tutta interna del sistema politico: quella tra forze politiche che dovevano stare insieme necessariamente per ragioni costituzionali, ma erano divise per appartenenza a due campi ideologici diversi. Come hanno risolto i problemi della frontiera le classi dirigenti della prima Repubblica? Con un miracolo di equilibrismo in tutti i campi. Sulla frontiera Est-Ovest sono stati un Paese fedele all'alleanza, ma contemporaneamente coltivavano aperture al dialogo con il campo dell'Est. Poi c'erano ragioni commerciali. Insomma era un miracolo di equilibrio: un po' di Helsinki, un po' di Tangeri».

E sul fronte interno?
«La frontiera interna era tra i partiti del campo occidentale ed il Partito Comunista, che aveva un legame ideologico con l'Est. Lo regolava con il patto costituzionale e con la grande intuizione del partito di massa del Partito Comunista, un partito che si doveva non isolare come partito minoritario di avanguardia, ma doveva entrare all'interno della società nelle aree più ramificabili dall'influenza politica. Si saldava così un legame costituzionale. Il legame del compromesso patriottico. Nessuna forza politica del campo occidentale avrebbe messo fuori legge il Partito Comunista e il Partito Comunista non sarebbe mai stato un partito falange armata in caso di attacco all'Italia dei Paesi dell'Est».

Quel patto muore con la morte di Moro e tutto il sistema comincia uno squilibrio che esploderà con la caduta del muro? Che idea ti sei fatto di quel grumo di anni che c'è tra il golpe in Cile, il rapimento Moro volto a far saltare il compromesso storico, l'assassinio di Falcone?
«Tra il 1948 e il 1989, quaranta anni, in un Paese di frontiera come l'Italia, si è combattuta una guerra fredda. I due campi ideologici non erano in condizione di poter dialogare senza misurarsi costantemente sul piano della forza. Ma non più la forza militare. Ogni volta che si stava per arrivare al punto dello scontro, del passaggio dalla guerra fredda alla guerra calda, i due imperi frenavano. Questa guerra di aggiustamento delle condizioni di squilibrio che si andavano a creare nelle due aree non poteva non avvenire che con mezzi occulti, coperti, non visibili. Ho letto un tuo articolo sulla strage di Brescia. Ti sembra possibile che in un Paese di frontiera non si sappia cosa c'era nell'uso del terrorismo di destra e di sinistra? Noi pensiamo: il terrorismo di sinistra ha una base ideologica. E quindi ha un retroterra anche idealistico, pazzoide, quello che vuoi, ma c'era idealismo, sporco di sangue. Il terrorismo di destra non aveva nulla di ideologico, è stato strumentalizzato ed utilizzato a fini di manovalanza. Non esisteva una centrale del fascismo che utilizzava il terrorismo di destra per ragioni ideologiche, c'era una centrale di farabutti che dovevano dare una veste ideologica allo stragismo. Il terrorismo di destra è assimilabile alle bande criminali della mafiosità. Perché è roba da criminali, da mafiosi».

Cos'era Gladio? Tu sapevi che esisteva?
«Gladio, nella sua manifestazione plateale, appare nel '90-91 con le dichiarazioni di Andreotti. Delle organizzazioni parallele fuori dell'ordinamento costituzionale, parla lo stesso Andreotti in un articolo sul Sifar pubblicato sul giornale Concretezza nel febbraio del '68. "Ma di che cosa si sta parlando qui? Qui è tutto noto, tutti sanno. I rapporti, anche le forme clandestine". Fa accenno esplicito ad organizzazioni, all'interno del nostro sistema di sicurezza e del nostro sistema di alleanze, non costituzionalmente rispettabili, o compatibili costituzionalmente. Andreotti era uno che non si faceva coinvolgere nei problemi, ma era informato. Lui non si immischiava. Sapeva e tesaurizzava. Quando, nell'84, feci l'intervista sulla questione dell'attentato al treno...>>

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«Sì. Dissi: "Ci hanno mandato un avvertimento". Dissi che c'erano forze che volevano ledere la nostra sovranità. Spadolini fece un casino. C'era il governo Craxi, voleva fare una crisi per la mia intervista. Craxi mi telefonò: "Vieni ad una riunione a Palazzo Chigi". Vado, ci sono Craxi, Forlani, Andreotti ministro degli Esteri, Spadolini ministro della Difesa e Amato che stava lì come sottosegretario ai Servizi. Spadolini fa uno sproloquio: "Tu vuoi rovinare questo governo tu, così come hai fatto cadere il mio governo, vuoi far cadere anche il governo di Craxi!". Io dissi: "No, io ho semplicemente espresso il mio pensiero. Non voglio far cadere nessun governo". Andreotti, che ce l'aveva con Spadolini e che voleva darmi una dritta, dice col suo modo: "La sovranità limitata è un problema sempre aperto, un problema antico. La sovranità limitata con l'America noi l'abbiamo sancita con un atto amministrativo, la circolare Trabucchi". Silenzio. Mette lì queste cose: circolare Trabucchi, sovranità limitata, atto amministrativo. Spadolini non capisce perché è disorientato da questa cosa. Forlani guarda l'orologio e dice: "Ho un appuntamento", si alza e se ne va. Due minuti dopo Amato dice a Craxi che ha un impegno e se ne va. Restiamo Spadolini, Andreotti, io e Craxi. Craxi vede l'imbarazzo generale e dice: "Va bene, ci siamo chiariti". Andreotti mi stringe la mano come per dire: approfondisci. E in effetti Trabucchi nel giugno 1960, durante i fatti di Genova con il governo Tambroni, accettò una richiesta degli americani, evidentemente molto preoccupati, che ottennero, con una circolare del ministro delle Finanze, che negli uffici doganali delle basi americane venissero sostituiti i doganieri italiani con quelli statunitensi. Di lì passò tutto l'armamento in Italia. Passò attraverso le basi militari americane. Entrava ed usciva. E la circolare Trabucchi non fu mai abolita».

C'è stato un momento in cui Moro stava per essere liberato?
«Io credo di sì. Noi socialisti, gli amici di Moro e persone spinte da una preoccupazione umanitaria, come Vassalli, cercammo di spingere per la liberazione del presidente dc. La nostra azione era alla luce del sole e gli incontri con le persone che pensavamo potessero essere tramite con le Br avvenivano all'aperto. Insomma ti pare possibile che Pace, esponente dell'estrema sinistra che dialogava con le Br attraverso Morucci, si incontra con i socialisti alla luce del sole, si vede più volte nei bar con Morucci e Faranda... E tutti questi non sono controllati? Non sono ascoltati? Seguendo lui sarebbero arrivati alla prigione».

Ci si è sempre chiesti se voi informaste il governo dell'epoca...
«Non è vero che non informavamo, tutti erano informati, Cossiga era informato, il Quirinale era informato, il Quirinale e chi stava al Quirinale oltre il Presidente, erano informati, tutti erano informati. Ora come è possibile che ci sia stata tanta voluta trascuratezza? A mio modo di vedere il covo era conosciuto. Se poi metti in connessione che oramai è quasi certo il fatto che Mennini il prete, andò a confessarlo e poi andò via dall'Italia, fu mandato lontano dalla Chiesa...».

Chi è che voleva Moro morto?
«Questa è una domanda che non va fatta perché non otterrai mai la risposta. Devi fare un'altra domanda. Chi non lo voleva operante? I comandi militari della guerra fredda. Perché lui stava innovando le regole del passato. Sapeva che, nella guerra fredda, non potevano stare nei governi nazionali del campo occidentale quelli che erano considerati i nemici internazionali. Ma Moro, negli anni settanta, fece un ragionamento inedito. Stava nascendo un nuovo rapporto Est-Ovest, andava avanti una politica di distensione, di dialogo tra le grandi potenze. Questo, pensava, permetteva un superamento, sul piano nazionale, della logica derivata dalla guerra fredda. Non per fare governi tra Dc e Pci, ma per realizzare una legittimazione di governo delle masse popolari anti-Stato in Italia. Che erano i cattolici, i socialisti e i comunisti. E la legittimazione avviene attraverso il governo del Paese. Dei cattolici è avvenuto, dei socialisti anche, doveva avvenire pure dei comunisti».

In Italia c'è stato il rischio di un colpo di Stato negli anni '70?
«In Italia dal 1948 in poi hanno convissuto due tendenze di fondo. La tendenza alla soluzione autoritaria dei problemi difficili a risolversi e la scelta difficile, faticosa, della via democratica. Questo nasce dal fatto che non è stato risolto in via definitiva l'appartenenza toto corde delle masse alle ragioni dello stato democratico. La maturazione democratica delle masse in Italia è stato un processo sempre interrotto. È continuato sempre, ma ha avuto sempre delle interruzioni perché , anche nell'opinione pubblica, talvolta ha prevalso la suggestione della semplificazione. Tanto è vero che oggi la vera questione non è rievocare regimi passati o rischi di regimi passati, il problema sempre aperto in Italia è quello della opzione tra la soluzione autoritaria e quella democratica».

La prima Repubblica si spegne per sempre con l'attentato a Falcone, nei giorni di Tangentopoli e con il parlamento che non riesce a eleggere il Capo dello Stato...
«Falcone aveva accumulato nella sua vita tante ostilità perché aveva saputo agire sempre senza domandarsi: "Mi giova o non mi giova?". Ad un certo momento c'è un vuoto politico e istituzionale che apre spazio ad uno o a più di quelli che sono stati colpiti da quell'agire indipendente. La responsabilità, quando avviene qualcosa di questo genere, è sì di chi ha colpito, è sì di chi ha fornito l'arma, ma è anche di coloro, e possono essere moltissimi, che sapevano e si sono voltati dall'altra parte. Che Falcone andasse incontro a qualcosa di terribile c'era più di uno che lo sapeva. E si è voltato».

La fase finale di Cossiga, le picconate e il resto... Come la spieghi?
«È un dramma shakespeariano. Cossiga era uno che ha rappresentato veramente il dramma politico italiano nel suo unicum, cioè il dilemma tra autoritarismo e democrazia. Quello è stato ed è il dramma vero. Soluzione autoritaria o soluzione democratica».

Cossiga le aveva tutte e due dentro?
«Sì».

Ed è per questo che dopo la vicenda Andreotti perde il controllo?
«Sì».

1956. Cosa sarebbe stata la sinistra italiana se allora il Pci avesse avuto il coraggio di una secca condanna?
«Nel '56 Togliatti sferra un attacco violento contro il revisionismo. È rivolto a Nenni che pone il problema dei socialisti e alla dissidenza interna, quella di intellettuali come Giolitti, Fabrizio Onofri che poi rompono con il Partito. Pongono il problema che non è una crisi nel sistema, ma è una crisi del sistema. Il socialismo reale è lo Stato che diventa Stato del partito. Il revisionismo rompe questo assunto. Il partito politico non può essere Stato, perché, se diventa Stato, ha dentro di sé gli elementi della oppressione. Se nel '56 il Pci avesse condannato la repressione ungherese cosa sarebbe successo? Sarebbe stato lacerato da una scissione. E avrebbero prevalso i filosovietici. Ecco perché insisto sul tema dell'assenza di cultura istituzionale da parte della Sinistra. La Sinistra e i cattolici, la stragrande maggioranza delle masse italiane nascono anti-Stato. I cattolici per la questione vaticana, i socialisti e i comunisti per ragioni sociali, economiche, ideologiche».

Neanche dopo il 1989 la sinistra riesce a unirsi.
«Dopo il 1989 Craxi va a Praga. Su un muro trova scritto "viva il Comunismo". Allora lui cancella e scrive "abbasso il Comunismo, viva il Socialismo". Passa un giovane ceco, legge e gli dice, facendogli il segno del taglio della testa, "Socialismo Kaputt". Comunismo e Socialismo, nell'immaginario generale, erano identificate. Craxi dopo l'89 doveva compiere una grande operazione politica: chiedere, dopo la Bolognina, che Partito Comunista e Partito Socialista si sciogliessero e riunificassero superando la scissione di Livorno del 1921. Ma non andando a prima di Livorno, andando più avanti. Si doveva sapere che si sarebbe aperta nelle nuove generazioni una crisi di rigetto nei confronti anche della socialdemocrazia e di ogni forma di socialismo. Realizzato o realizzabile. Bisognava andare oltre. Craxi invece fa una sola operazione distensiva, nei confronti del Pci. Dice: vi do tempo, cioè non vado alle elezioni anticipate sulla vostra crisi, vi do tempo per riorganizzarvi e riconvertirvi. Ora secondo me questa era una linea totalmente sbagliata perché la riconversione affidata semplicemente all'iniziativa interna del Partito Comunista avrebbe avuto tempi lunghi, e abbiamo visto che, ancora oggi, in aree del Partito Comunista, dopo trent'anni, non è maturata ancora questa consapevolezza».

Qual è l'ultima volta che hai sentito Craxi?
«Prima che partisse».

Dopo non lo hai più sentito?
«Non l'ho più sentito. Io ebbi con lui un dissenso finale. Ho sempre ritenuto che, andando via, sbagliasse. Un errore forse inevitabile per le ragioni di un profondo dolore . Al culmine del suo dramma personale e politico, alla fine della legislatura nel '94, io gli dissi: «Non andare all'estero, noi abbiamo tutti il dovere di stare qui. All'inizio sarà dura, sarà difficile, tutto sarà pieno di amarezze e di sofferenze, ma il tempo fa maturare le ragioni, si spengono le passioni più aspre. Le passioni sono naturalmente ingovernabili solo in due casi: quando il soggetto è ancora sul piedistallo e quando il soggetto è scappato». Quando tu scendi dal piedistallo e non scappi, la ragione ti arriva non dico subito, ma in tempi ragionevoli».

E lui questo non lo accettò?
«Non lo accettò perché sentiva forte l'ingiustizia, l'offesa ricevuta, l'inaccettabilità della selezione per decimazione. Credo che ci fosse anche una ragione di sofferenza fisica, morale, personale. Temeva di non farcela».

Delle persone che hanno fatto politica con te chi ti manca di più?
«Matteo Matteotti. Era una persona splendida: aveva un profondo distacco dal suo dramma umano e la ragione della sua lotta politica era sicuramente l'incarnazione di un ideale e di una sofferenza. La sinistra non esiste senza la sofferenza. Io ricordo sempre una frase che la Kuliscioff aveva pronunciato nel 1926 , intervistata da Giovanni Ansaldo allora ancora antifascista, che le chiese: "Ma dove avete sbagliato?" Una domanda che si può, si deve, fare sempre quando un grande patrimonio viene improvvisamente distrutto. Si può fare anche oggi, a chi lo ha distrutto. Lei rispose: "Non vi esercitate in grandi elucubrazioni, cercate di capire una cosa: alla base di una sconfitta vi è sempre una dirigenza che non ha sofferto"».

Aldo Moro, 40 anni fa la strage: i segreti mai rivelati-

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(1/Continua)

7 luglio 2019, 20:17 - Aggiornata il 8 luglio 2019, 08:49

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