28.7.10

I dispiaceri della carne

I dispiaceri della carne

23 luglio 2010⁠

Controlli insufficienti. Allevamenti lager. Macellazioni clandestine. Ampio uso di farmaci. È allarme per quanto riguarda la qualità della carne che finisce sulle tavole degli italiani.

Di certo questo articolo farà riflettere chi la carne la consuma e magari ignorava cosa c'è diestro a quella bistecca che hanno appena mangiato, ma non sconvolgerà di certo chi ha scelto di non consumare carne cosciente non solo delle ragioni sociali e di salute che sono affrontate in questo
articolo  ma anche delle ragioni etiche che stanno dietro al rifiuto di carne e derivati.

Non restiamo sconvolti davanti a dei dati che conoscevamo già, davanti a quelle che non suonano come rivelazioni ma come un elenco di mali che ruotano attorno all'industria della carne, con conseguenze immediate sugli animali e sui consumatori.

Questo è la carne.

E molto di più. Che vogliate rendervene conto o meno, con questo avete a che fare ogni volta che ne consumate, con uno dei più grandi affari economici della storia con buona pace degli allevatori, con infinite torture inflitte agli animali e conseguenze anche per l'uomo e il suo ambiente.

Fonte: L'Espresso – 22 luglio 2010 – Articolo di R.Bocca

Nel piatto c'è un filetto al sangue. O una costata di maiale. O un pollo al forno che aspetta di essere divorato. La forchetta è già a mezz'aria quando si affaccia un dubbio: ma in che percentuale, la carne macellata in Italia, viene controllata dai veterinari pubblici? Insomma: quanto possiamo essere
certi che, nel cibo che stiamo mangiando, non siano contenute sostanze tossiche o comunque pericolose?

La prima risposta arriva da Francesca Martini, sottosegretario alla Salute: "Il consumatore italiano può stare tranquillo", garantisce, "la sicurezza della filiera alimentare è assoluta, anche per la carne. Tutti gli standard europei vengono rispettati. I nostri veterinari sono un esempio di professionismo. Dunque non c'è da preoccuparsi". O meglio: non ci sarebbe, se non si intrecciassero i dati dell'anagrafe nazionale bovina, dell'Istat e dell'Unione nazionale avicoltura con le statistiche del Piano nazionale
residui, il programma ministeriale "di sorveglianza sulla presenza, negli animali e negli alimenti di origine animale, di residui di sostanze chimiche che potrebbero danneggiare la salute pubblica".

Da questo intreccio di analisi escono numeri poco entusiasmanti, scenari
poco popolari. Nel 2009, ad esempio, la percentuale dei controlli sui
bovini macellati (in tutto 2 milioni 949 mila 828) ha riguardato 15 mila
803 capi, ed è stata pari allo 0,5 per cento. Dei 13 milioni 616 mila 438
suini macellati, invece, i veterinari ne hanno controllati 7 mila 563, cioè
uno striminzito 0,05 per cento. E ancora meno sono stati controllati gli 11
milioni 740 mila quintali di volatili macellati (tra polli, tacchini, oche
e quant'altro), con un totale di 4 mila 316 verifiche e il record negativo
dello 0,03 per cento (inferiore agli standard imposti dalle direttive Ue).

"Il settore delle carni è una polveriera, ne paghiamo ogni giorno le
conseguenze, ma nessuno ha interesse a sollevare la questione", dice Enrico
Moriconi, presidente dell'Associazione veterinari per i diritti animali
(Avda). Un problema di prima grandezza, considerando che lo scorso anno gli
italiani hanno consumato in media 92 chili di carne a testa, e che per il
presidente di Assocarni Luigi Cremonini "i consumi sono destinati a
crescere". Eppure l'opinione pubblica è serena: "La gran parte della
popolazione continua a non chiedersi cosa può nascondere una bistecca",
sostiene Moriconi: "Al massimo si agita quando scoppiano episodi di
straordinaria gravità: come l'influenza aviaria nel 1999 e 2002, la
cosiddetta mucca pazza nel 2001, o le carni suine irlandesi contaminate
dalla diossina nel 2008".

Emergenze che la sanità italiana ha affrontato senza sbandamenti, va
riconosciuto, adeguandosi velocemente ai protocolli internazionali. Ma la
comune origine di questi allarmi è rimasta identica: "Una zootecnia suicida
basata sugli allevamenti intensivi", la chiama Roberto Bennati,
vicepresidente della Lega antivivisezione (Lav). "Una strategia industriale
che, partita dagli Stati Uniti nel dopoguerra, è arrivata in Europa
travolgendo regole e tradizioni".

Anno dopo anno, ettaro dopo ettaro, al posto dei pascoli si sono imposti
capannoni "dove gli animali vivono in condizioni di sovraffollamento,
immersi nell'inquinamento dei loro stessi escrementi (pregni di ammoniaca
per i bovini, e metano per il pollame), con limitate possibilità di
movimento e reiterati bombardamenti farmacologici". Non importa che anche
la Food and agricolture organization, a nome delle Nazioni Unite, definisca
queste strutture "un vivaio di malattie emergenti". Malgrado la crisi,
l'industria italiana delle carni nel 2009 ha fatturato 20,5 miliardi di
euro. Ed è una cifra che colpisce, oltre che per dimensioni, per il
confronto con la quantità di bestiame che muore all'interno delle nostre
aziende zootecniche. "Nel 2008″, documenta la Lav, "sono morti in Piemonte
20 mila 700 bovini allevati. In Veneto sono arrivati a quota 24 mila 433.
In Emilia Romagna ne hanno contati 18 mila 217 e in Lombardia 67 mila 996.
È accettabile questo cimitero? E chi può dire, in buona fede, che non
bisogna allarmarsi?".

Discorsi scivolosi, comunque li si prenda. Non soltanto nel campo dei
bovini, e non solo sul fronte della salute in senso stretto. Dice Nino
Andena, presidente dell'Associazione italiana allevatori (Aia): "Siamo
arrivati al punto che stanno meglio gli animali negli allevamenti, che gli
esseri umani nelle loro case…". E verrebbe da credergli, tanta è la
disponibilità con cui presenta la zootecnia moderna. Ma poi uno arriva a
Colombaro di Formigine, provincia di Modena, e trova una realtà come quella
della Società agricola Colombaro. "Qui cresciamo 20 mila suini", mostra
stalla per stalla il titolare Domenico Bellei. E non è un bello spettacolo:
ecco cinque maialini schiacciati, durante lo svezzamento, in ogni metro
quadro; eccone altri quattro in un metro quadro tra i 70 e i 180 giorni di
vita; ecco, ancora, gli 80 centimetri pro capite nei quali si trovano i
suini all'ingrasso. E mentre una fila di bestie urlanti sale sul rimorchio
che le porterà a diventare porchetta, Bellei fa un ragionamento schietto:
"Anche noi preferiremmo allevare maiali con altri criteri, più rispettosi
del loro benessere. Ci abbiamo pure provato, ma prevalgono le esigenze
commerciali. Così rispettiamo le regole ed evitiamo le ipocrisie: se gli
italiani pretendono l'etica da noi allevatori, accettino che i prodotti
siano più cari. Altrimenti è soltanto teoria…".

Parole condivisibili, per certi versi: ma anche incomplete. C'è molto
altro, infatti, da dire sull'esistenza intensiva dei maiali. Per esempio
che i tecnici dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa),
hanno presentato nel 2009 un'indagine sulla salmonella nei suini da
riproduzione. E il risultato, accolto dal silenzio pneumatico dei mass
media, è che il batterio risulta presente nel 51,2 per cento degli
allevamenti italiani (superati dalla Spagna con il 64 per cento, l'Olanda
con il 57,8, l'Irlanda con il 52,5 e il Regno Unito con il 52,2). "Quanto
basta per ribadire che la carne, fuori e dentro l'Italia, è un vettore di
rischio", dice la biologa Roberta Bartocci.

E lo scenario non cambia, aggiungono gli animalisti, spostandosi dai suini
al pollame. "Sempre l'Efsa", spiegano, "ha concluso uno studio sulle
carcasse dei polli da carne, e la scoperta è che nel 2008 il 49,6 per cento
dei campioni italiani era affetto da campylobacter (un batterio che, in
caso di cottura non completa della carne, può provocare forti dolori
addominali, febbre e diarrea), mentre il 17,4 mostrava tracce di
salmonella".

"La verità", segnala il responsabile dell'Unità operativa igiene degli
allevamenti piemontesi Gandolfo Barbarino (membro anche delle commissioni
ministeriali per il farmaco veterinario e i mangimi), "è che nel settore
carni ci vorrebbe più trasparenza". A partire dal famoso Piano nazionale
residui, che dovrebbe individuare le sostanze illegali somministrate al
bestiame per prevenire i malanni e velocizzarne la crescita. "Nel 2009″,
racconta Barbarino, "su 33 mila 552 campioni analizzati, è risultato
positivo appena lo 0,22 per cento. Ma non c'è da festeggiare. Il problema è
che i riscontri si basano sulle analisi chimiche di fegato, carni, sangue e
urine. E chi pratica il doping, in questo campo, ha raggiunto livelli di
tale raffinatezza da sfuggire ai controlli".

Per i bovini la procedura è semplice e rigorosa, spiega un allevatore
campano dietro promessa di anonimato: "Prima di tutto i trattamenti
avvengono il venerdì, perché nel fine settimana i dopanti fanno in tempo a
diventare invisibili". Si tratta di cocktail che contengono "dieci, dodici
sostanze proibite: in dosi ridotte ma con effetti esplosivi". Nei primi due
mesi, prosegue l'allevatore, "per far crescere alla svelta gli animali si
dà estradiolo con testosterone o nandrolone. Poi si passa ai beta agonisti,
che favoriscono la diminuzione del grasso, fino alla vigilia della
macellazione. E nell'ultimo periodo, utilizziamo i cortisonici per
aumentare la ritenzione idrica e definire al massimo la massa muscolare".
Tutto con la certezza dell'impunità totale, precisa: "Perché è vero che ci
sono i controlli, ma altrettanto vero è che pochi veterinari hanno voglia
di discutere con la camorra".

Anche per questo, spiegano gli addetti ai lavori, non bastano i 6 mila 500
veterinari in forza alle pubbliche amministrazioni (dei quali 5 mila 787
nelle Aziende sanitarie locali) a garantire la sicurezza delle carni
italiane.

"Il malaffare e l'opacità mettono a dura prova qualunque sorveglianza",
dice il biologo Pierluigi Cazzola, responsabile a Vercelli dell'Istituto
zooprofilattico sperimentale (Izs). Basti pensare al documento riservato, e
non ufficiale, che il ministero della Salute ha discusso il 19 maggio con
esponenti dei carabinieri, dell'Istituto di zooprofilassi e dell'Istituto
superiore di sanità. "Al centro dell'attenzione, c'era la tabella del
ministero con i farmaci prescritti agli animali d'allevamento", spiega un
testimone. "In particolare, si è chiesto alle Regioni di specificare quante
volte nel 2009 i veterinari avessero legalmente permesso agli allevatori di
utilizzare sostanze delicate per la salute animale (e quindi umana) come
gli ormoni. "L'esito, poco credibile, è che in Emilia Romagna su 46 mila
383 prescrizioni ordinarie non è risultato nessun caso. Idem per la
Sicilia, su un totale di 9 mila 641 prescrizioni. Per non parlare di
Lombardia, Liguria, Campania, Calabria, Basilicata, Veneto, Friuli e
Sardegna, che scaduti i termini di consegna non avevano ancora inviato i
dati".

In questo clima, viene da pensare, tutto è possibile: non solo dentro i
capannoni intensivi, ma anche nei pascoli di montagna. Raccontano gli
allevatori abruzzesi onesti, ad esempio, che le loro parti non sono esenti
da illegalità: "Si tratta", spiega uno di loro, "delle marche auricolari, i
sigilli che per gli animali equivalgono a carte d'identità". Un tempo erano
targhe metalliche, difficilmente trasferibili da una bestia all'altra.
"Oggi invece sono di plastica, si staccano senza problemi, e vengono
applicate alle bestie straniere, importate di nascosto ed escluse dal
circuito sanitario". Oppure, dice un altro allevatore, "c'è chi le marche
auricolari non le mette proprio, allevando anche animali malati". E non
sono notizie per sentito dire. Per verificarlo basta salire fino ai pascoli
di Pratosecco, sopra al comune di Camerata Nuova, e osservare un branco di
circa 300 vacche. La maggioranza dei capi, va sottolineato, ha regolari
marche. Altri, invece, no. "Il problema è capire di chi sono questi
animali", spiega Massimiliano Rocco di Wwf Italia, presente al sopralluogo,
"e poi catturarli: tracimano ovunque, dai prati ai boschi, in un circuito
di illegalità che parte dall'estero e arriva al nostro territorio".

Certo: non sbaglia François Tomei, direttore di Assocarni, quando sostiene
che nel suo settore "il numero di controlli ufficiali in Italia è superiore
a quello di qualsiasi altro Paese". E fa bene a ricordare che "la filiera
italiana ha un prodotto con caratteristiche organolettiche e nutrizionali
particolarmente elevate". Ma non è ancora sufficiente, a chiudere il
discorso: "A tutelare i consumatori, sarebbe utile anche un'Agenzia per la
sicurezza alimentare", dice la senatrice Colomba Mongiello (Pd), "ma il
governo ha pensato di inserirla tra gli enti inutili". Ora, spiega, si è
arrivati a una probabile retromarcia, ma se anche l'Agenzia dovesse partire
mancherebbero gli indispensabili decreti attuativi: "La sensazione è che,
in un Paese che mal tollera i controllori, non sia un ritardo casuale".
Quanto al fronte estero, e al rischio che i nostri confini siano
attraversati da bestiame malato, o in ogni caso fuori controllo, è utile
leggere i regolamenti comunitari. Soltanto così, infatti, si apprende che
in Europa i controlli spettano alle nazioni che esportano bestiame, mentre
gli Stati riceventi possono giusto svolgere "controlli per sondaggio e con
carattere non discriminatorio". Un obbligo che limita l'eccellente rete dei
nostri Uffici veterinari per gli adempimenti degli obblighi comunitari
(Uvac) e dei Posti di ispezione frontaliera (Pif). "Ma soprattutto",
commentano i veterinari, "fa guardare con sospetto al lungo elenco di
nazioni che non segnalano alcuna positività delle loro bestie alle sostanze
proibite". Tra queste, recita la tabella disponibile del 2007, Bulgaria,
Danimarca, Estonia, Finlandia, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Romania,
Slovenia, Repubblica slovacca e Svezia.

Da qui, il baratro delle macellazioni clandestine. "Di recente", dicono al
Wwf Italia, "è arrivato sui nostri tavoli un dettagliatissimo documento sul
ciclo illecito degli scarti di macellazione in Campania, Basilicata e
Puglia". Quattro pagine anonime in cui si spiega come pezzi di animali a
rischio non vengano eliminati dopo la macellazione, ma rientrino nel
sistema alimentare sotto la guida di organizzazioni criminali. Un'ipotesi
da approfondire, anche perché in linea con quanto accaduto in Italia nel
2009. Lo scorso febbraio, per dire, il Nucleo anti sofisticazioni dei
carabinieri (Nas) ha sequestrato 18 tonnellate tra carne e prodotti di
origine animale: non solo trovati in pessimo stato di conservazione, ma
privi della bollatura sanitaria. "Nell'occasione", hanno scritto le agenzie
di stampa, "sono stati individuati 102 centri di macellazione clandestina,
con 113 persone denunciate per il mancato rispetto delle norme igieniche e
la non corretta tenuta dei capi animali da parte degli allevatori".

Ecco perché non stupisce una comunicazione riservata del Nucleo
agroalimentare e forestale (Naf), nella quale si spiega che "le
macellazioni clandestine interessano (in Italia, ndr) circa 200 mila
bovini, che spariscono ogni anno dagli allevamenti ad opera della
malavita". Non c'è controllo che tenga. Non c'è multa che scoraggi. I
dispiaceri della carne abbondano, anche se nessuno pare allarmarsi. "Per
questo", dice Walter Rigobon, membro della segreteria nazionale di
Adiconsum (Associazione in difesa di consumatori e ambiente), abbiamo
stretto un accordo in provincia di Treviso con il consorzio Unicarve e i
supermercati Crai". Di fatto, spiega, "garantiamo ai consumatori carne che
abbia una tracciabilità totale: dalla nascita dell'animale fino al banco
vendita". L'iniziativa si chiama "Scrigno della carne": "Perché la salute è
un bene prezioso", dice Rigobon. Anche più del business.
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