Surplus tedesco, rischi a catena perfino per la Germania
COMMENTI
di ANDREA BOITANI Le complesse regole europee su almeno una cosa sono chiare: se un paese ha un surplus di partite correnti (grosso modo, la differenza tra esportazioni e importazioni) superiore al 6% medio per tre anni, deve prendere provvedimenti per ridurlo. È una regola che fa parte del cosiddetto Six-Pack entrato in vigore nel 2011. La Germania ha però deciso che quella regola è figlia di un dio minore, perciò l'ha infranta sempre dal 2006, e la Commissione si è limitata a flebili "raccomandazioni". Ma perché un elevato surplus di partite correnti sarebbe da considerare un male e perché andrebbe colpevolizzato il virtuoso Paese che riesce ad esportare molto più di quanto importi?
Il modo più semplice di vedere la cosa è questo. Le esportazioni della Germania dipendono dalla competitività di costo delle merci che produce (se cioè costano meno di quelle prodotte in altri paesi) ma anche dalla crescita economica dei paesi esteri, soprattutto di quelli con cui sono più intensi gli scambi commerciali. Le importazioni tedesche invece, oltre che dalla competitività delle merci, dipendono dalla crescita e, quindi, dalla domanda interna della Germania. Quindi un elevato surplus delle partite correnti tedesche significa che la Germania approfitta bene della crescita estera (della Cina, dei paesi dell'Est Europeo, ecc.) ma importa poco, perché la sua domanda interna cresce poco. Inoltre un paese in surplus di partite correnti sarà anche un esportatore netto
di capitali (e infatti la Germania lo è stata e lo è): le risorse provenienti dall'estero e non spese all'interno del paese rifluiranno verso l'estero sotto la forma di investimenti (diretti o di portafoglio). Non è una semplice possibilità; è una legge contabile inevitabile. Una legge che però espone i paesi in surplus ai rischi di fallimento da parte dei debitori. Non a caso le banche tedesche, tra 2010 e 2012, hanno corso rischi seri con la Grecia, il Portogallo, la Spagna l'Irlanda e l'Italia, tutti paesi in deficit di partite correnti e che avevano finanziato tali deficit indebitandosi con le banche tedesche. Insomma i surplus eccessivi sono un rischio anche per chi ce l'ha ed aumentano la probabilità di dover salvare le proprie banche e/o i paesi partner. Tanto la competitività delle merci tedesche quanto la bassa crescita della domanda interna sono state fatte risalire alla bassa crescita dei salari in Germania (almeno) dall'inizio del nuovo secolo. I salari, infatti sono tanto una componente dei costi (e quindi contribuiscono a determinare la competitività) sia un reddito che viene prevalentemente speso e, quindi, contribuisce alla domanda interna. Peter Bofinger - che fa parte del Consiglio tedesco degli esperti economici - ha ricordato che già nel 1995 Klaus Zwickel, capo del potente sindacato dei lavoratori IG Metall, aveva fatto la proposta di un Patto per il lavoro, dichiarando la sua disponibilità ad accettare una stagnazione dei salari reali, cioè lasciare tutti i guadagni di produttività ai profitti, se gli imprenditori fossero stati disposti a creare nuovi posti di lavoro. In effetti, il Patto (per il lavoro, l'istruzione e, guarda caso, la competitività) venne siglato nel 1998, auspice il governo di Gerhard Schröder, senza curarsi di ricercare soluzioni Euro-cooperative e anzi utilizzando abilmente l'esistenza dell'Euro. Senza il quale la moneta tedesca si sarebbe fortemente apprezzata, annullando in buona misura gli effetti della maggiore competitività garantita dal patto corporativo. Alcuni commentatori hanno concluso che sarebbe bastata una dinamica salariale tedesca più sostenuta di quella garantita dal patto corporativo per ridurre il surplus commerciale eccessivo. Ma le cose non sono così semplici. Un recente studio dell'IMK (l'Istituto per la Politica Macroeconomica tedesco) ha mostrato che un livello salariale medio ogni anno più alto dell'1% rispetto a quello che si è effettivamente realizzato dal 2001 al 2015 avrebbe ridotto il surplus tedesco delle partite correnti nel 2015 dello 0,5% rispetto a quello che si è realmente verificato. Poca cosa. E la ragione è che i più alti prezzi delle merci tedesche (causati dai salari più alti) avrebbero fatto aumentare il valore delle esportazioni più di quanto avrebbero fatto ridurre i volumi, mentre l'aumento del valore delle importazioni non sarebbe stato esagerato, a fronte di un discreto aumento del volume. Anche se la Germania avesse adottato, invece del patto corporativo, una politica salariale in linea con gli equilibri macroeconomici - che cioè preveda aumenti salariali pari all'incremento della produttività più il tasso di inflazione obiettivo della Bce (vicino ma inferiore al 2%) - il surplus di partite correnti nel 2015 sarebbe stato solo del 6,4% inferiore a quello che è stato, nonostante il marcato declino della competitività delle merci tedesche. Tuttavia, il forte incremento dei salari, in questo caso, avrebbe fatto aumentare di parecchio le entrate fiscali tedesche. Se il maggior spazio fiscale fosse stato usato per finanziare investimenti pubblici, l'economia tedesca sarebbe cresciuta a tassi ben più sostenuti e le importazioni sarebbero di conseguenza lievitate, con conseguente riduzione del surplus di partite correnti (nel 2015) pari al 14% di quello che si è verificato. Piccolo particolare: l'occupazione sarebbe alla fine stata del 3% più alta di quella effettivamente realizzatasi; i consumi privati sarebbero stati più alti dell'8,4%; i profitti (al lordo delle tasse) sarebbero stati più alti dell'8,5%. Anche il bilancio pubblico avrebbe avuto un surplus maggiore (di circa 3 miliardi di euro). Insomma: sarebbero stati meglio tutti, in primo luogo in Germania. E anche noi poveri paesi del Sud Europa avremmo avuto un po' più di respiro. Peccato che quella regola sui surplus eccessivi sia rimasta figlia di un dio minore.
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