UNA FRESCA insalata, con tante verdure di stagione, o una macedonia profumata e coloratissima possono certamente far venire il buon umore. Ma un alimento, per quanto bello a vedersi, ricco di nutrienti - nutraceutico si dice adesso - e gratificante al palato, può anche "curare" chi ha perso la felicità? La risposta la dà uno studio che viene dall'altro emisfero. Ed è positiva. Aggiungere un intervento dietetico personalizzato a pazienti in cura per depressione dà vantaggi aggiuntivi. E se si pensa che la durata dello studio - condotto da scienziati australiani e neozelandesi - è di sole 12 settimane, tempo brevissimo per valutare l'impatto di un regime alimentare, il risultato è ancora più rilevante. Così come è importante il fatto che si tratti di uno studio controllato e randomizzato. Ovvero - spiega Luigi Fontana, professore di Nutrizione all'università di Brescia e alla Washington University a St. Louis - il gold standard per capire se un intervento dietetico o meno funziona davvero, o no.
Lo studio ha scelto 67 pazienti, poi divisi in due gruppi. Ad un gruppo è stato aggiunto un intervento dietetico personalizzato. Aggiunto, ovviamente, poiché tutti e 67 erano in cura con psicoterapia o farmaci, o tutte e due le cose insieme. Alla terapia è stato affiancato un intervento nutrizionale seguendo il modello che i ricercatori hanno definito ModiMed-Diet, ovvero la dieta mediterranea modificata, un mix tra linee guida greche e australiane. Per migliorare la qualità nutrizionale dei pazienti, privilegiando in particolare dodici categorie chiave di alimenti: cereali integrali, verdura e frutta, legumi, prodotti caseari magri e senza zucchero, noci, pesce, carne rossa magra, pollo, uova e olio d'oliva. Contemporaneamente veniva proposta una riduzione di dolci, cereali raffinati, prodotti fritti o di fast food, carni processate e bevande dolci. Tutto sotto il controllo di un dietista. I risultati dello studio Smiles (smile come sorriso, ma in realtà è l'acronimo di Supporting modification of lifestyle in lower emotional states)dopo appena tre mesi sono significativi: nel gruppo trattato il 32% ha mostrato una remissione dei sintomi, contro solo l'8% del gruppo di controllo. Con una precisazione dei ricercatori: hanno risposto meglio i pazienti che seguivano una dieta peggiore. E cambiare regime alimentare non si è neppure rivelato più costoso, anzi: a fronte di una media settimanale di 138 dollari australiani a settimana, i pazienti che hanno modificato la loro dieta ne hanno speso solo 112.
Che un regime alimentare corretto identificato ormai da quasi tutti i ricercatori con quello mediterraneo - sia preventivo per molte malattie è cosa nota. Ma adesso si va oltre: la dieta può anche curare. E non solo diabete e malattie cardiovascolari ma appunto anche quelle che riguardano l'insondabile mistero delle patologie neurologiche. «E anche se non conosciamo del tutto i meccanismi - continua Fontana, autore di "La grande via", libro in cui si traccia appunto la strada verso una vita sana attraverso alimenti, meditazione e attività fisica - possiamo certamente affermare che una dieta a più alto valore qualitativo abbia effetti antinfiammatori e diminuisca l'insulinoresistenza. E adesso anche che può essere efficace nel trattare la depressione. Visto poi il consumo massiccio di antidepressivi, persino nei bambini, credo sia un buon intervento per arginare l'epidemia di malessere».
Dal punto di vista chimico il cibo - spiega Eugenio Luigi Iorio - specialista in stress os- sidativo e biochimica degli alimenti - ha una vera e propria valenza di segnale . «La curcumina per esempio - racconta Iorio - è in grado di spegnere l'infiammazione del sistema nervoso e attivare la sintesi di sostanze chimiche protettive, come gli antiossidanti, nonché di modificare il microbiota intestinale e persino di chelare i metalli pesanti, come piombo o mercurio, che sono cofattori di alcune malattie neurodegenerative. E come la curcumina anche resveratrolo e quercitina, e tutti i polifenoli di frutta e verdura, sono molecole segnale in grado di dialogare direttamente con il nostro Dna consentendo alle nostre cellule di adattarsi all'ambiente. Gli omega 3 di pesce azzurro, alghe e frutta secca, hanno invece un ruolo diretto: entrano nella struttura delle membrane cellulari, soprattutto dei neuroni, e ne regolano la fluidità e anche le funzioni».
Non a caso le popolazioni più longeve, tra questi gli anziani di Okinawa o sardi, seguono una dieta con poche calorie ma ad alta densità nutrizionale. Proprio come la mediterranea. Anche se quella di questo studio secondo Andrea Ghiselli, specialista in Nutrizione del Crea - non è paragonabile alla mediterranea. «Troppe proteine e grassi, pochi carboidrati - spiega - è vero che si tratta di popolazioni che mangiano molta carne, ma un uovo e una porzione di carne al giorno è davvero troppo. E se fa bene questa alla depressione figuriamoci la nostra, che ha meno grassi e proteine...».
Malta Nostra: how Italian Mafia is using the island to launder money
A stroke of good luck. A case of fate that would potentially allow to track down the treasure trove of Gomorra, that is the money the Casalesi clan piled up in years and years of criminal activity. The year is 2005. Nicola Schiavone, the son of notorious boss Sandokan, drops his wallet on a street. The Carabinieri del Ros, an Italian enforcement branch collect it, and find between a banknotes and a receipt a business card featuring the name of Bruno Tucci. Tucci is an Italian entrepreneur with a base in Malta. The investigators tap him. Listening to his calls on tape they get to the conclusion that Tucci might be one of the entrepreneurs through whom the Casal di Principe clan intends to launder its Malta money stockpile.
Setting up night clubs, restaurants, gaming companies: this is the idea of the Casalesi clan according to the investigating officials. They promptly send a rogatory to authorities in La Valletta. They plan to follow the money, and stop laundering operations before they even onset. Alas, La Valletta delays an answer, and when it finally gets to the Italian investigators it is not exhaustive. That results in totally losing track of the money Gomorra is believed to have hoarded and hidden in Malta. That was until now. The documents L'Espresso obtained will allow now to retrace and follow Tucci's lead. A resident in Malta, Tucci is a shareholder in two companies on the Island: MBT Services Limited, incorporated in 1996, and Genergia Ltd, incorporated in 2010. None of the two ever filed a balance sheet. There is no way, therefore, to get an idea of the assets and business operations of the two companies. Our outlet reached out to Tucci, but he did not provide any information. The only certainty is that both companies are still operating.
This is just one of the dozens of stories concerning Mafia that L'Espresso gathered when going through the secret list of Italians who set up companies in the former British colony. Malta is a new Panama in the heart of the Mediterranean. A sort of "Grown Close to Home" tax haven, where tons of money from rackets, extortion and drug trafficking can be laundered. There is no need to go through customs or board planes. It takes just a two hours boat ride from Pozzallo or Portopalo di Capo Passero to reach its coasts. A briefcase stashed with cash, or often even just a wire transfer, and money launderers are set: millions of dirty euros can be reinvested in the legal economy. Once laundered, that money can even yield a profit and at very low taxes, sometimes even none at all. And more than anything else, it is a secure system, because Malta is a member country of the European Union, the currency of which is the euro, and no one checks on you if you are arriving from Italy. There is no need for reinventing stratagems: not too zealous local authorities will suffice. Considering how things went so far, someone in La Valletta must have closed more than one eye on the origin of the money that in recent years landed on the Island.
Haru Pharma Limited. A name like so many in the endless Maltese Registry of Companies. Haru Pharma is the perfect showcase to hide an embarrassing past: that of the Calabrò family, the narco 'Ndrangheta family specializing in cocaine trafficking with the South American cartels. Once stars in the ill-famed Anonima Sequestri (a journalistic term for kidnappers, TN), and later drug traffickers with a net worth comparable to that of Mexican El Chapo Guzman's cartel, the Calabrò family comes originally from Sal Luca, a little village on the slopes of Aspromonte. This is where all Mafia bosses overseeing the European drug trafficking business reside. They are shrewd and quiet people with a strong sense for business. And they chose Malta to hide their wealth. Haru Pharma is headquartered in Balzan, just a few miles away from La Valletta.
Despite having been operating for four years already, the company never filed a balance sheet, which makes it impossible to get an idea of the assets and business operations of the company. We did retrieve, however, other records. Its sole shareholder is Haru Pharma Holding Limited, incorporated in the Island of Saint Kitss and Nevis, a Caribbean tax paradise, the government of which is the British monarchy. Saint Kitss and Nevis guarantees an absolute secrecy on the identity of the company's partners. Head of the Maltese branch is Sebastiano Calabrò, whose name happens to be the link between the anonymous Maltese shell company and the 'Ndrangheta. "Bastianeddu", as his family nicknamed him, is heir to an important Mafia clan, the one including the Calabrò and Romeo families. Both made their huge fortune through kidnappings first and international cocaine trafficking later. Convictions accrued by some bosses, among which Sebastiano's father, do not seem to have stopped operations of the clan.
They came recently back on the anti-Mafia radar screen for alleged money laundering. According to the Italian prosecutors, part of the proceeds of his cocaine trafficking was used by the San Luca 'Ndrine to buy one of Milan's most traditional and oldest stores. The Caiazzo Pharmacy opened more than 100 years ago in the square by the same name, right on the back of the city's central rail station. This is where thirty-year-old Sebastiano Calabrò currently works. He is the same guy appearing in the Maltese Registry of Companies as director of Haru Pharma Limited. The finding allowed, for the first time, to trace a factual link between offshore companies and individuals with ties to the powerful San Luca cartel.
The nature of business changes, not so where the money originates. From pharmacy products we go to online gambling. The latter is an industry on which the government in La Valletta is betting heavily by supporting it with a generous tax regime, to understate it. This time we are talking about a Mafia clan based in Reggio Calabria. It is a criminal group which came under the focus of the Italian magistrates for the so-called "Gambling" probe. A major investigation on money laundering, it led already to seizing companies, cash and real estate worth € 2 billion. The familiar face of the system is that of Mario Gennaro, 42 years old, dubbed "Mariolino" by his friends. The boss decided to cooperate with prosecutors, and secured himself a just three-year sentence.
He told prosecutors to have been sent to the former Mediterranean British colony on behalf of the most powerful clans in the city. The goal: to invest Mafia funds in online poker and betting sites. The industry, the Maltese Minister for Competitiveness Emmanuel Mallia said, is worth € 1.2 billion, or 12% of Maltese national GDP. These figures translate into a consistent business for many people on the Island, first in line accountants and lawyers, who happen to be sometimes very well-known professionals and firms. This is what the story of the Mafia clan Gennaro was representing shows. His deals involved some twenty companies on the Island. The trademark concealing the Mafia clan is a company named Betuniq, owned by Uniq Group Limited. Shareholder of the latter are a company run by Gennaro, and Gvm Holdings, a fiduciary trust company headed by David Gonzi, lawyer and son of the former Maltese prime minister, Lawrence Gonzi. A high-up, Gonzi Junior shows in the corporate documents of many other enterprises of the Mafia group.
On these grounds the prosecutors in Reggio Calabria launched an investigation on him, the documents of which were later handed over to a Maltese court. A year went by already since then, and given the time elapsed, some Italian sources in prosecuting offices fear that the Maltese authorities filed the case. The likely hypothesis casts shadows on the real will of La Valletta to pursue the case, the more so, after the finding supported by the documents examined by L'Espresso that several other companies are escaping Italian prosecution offices. The records of all the companies related to gennaro show the clan as being partner of Gonzi's Gvm Holdings. Such is the case of Global Promotions Holdings and Mgame Holding Limited. After learning from the press that he was being probed, the son of the former Maltese prime minister stated that he "had only held quotas on behalf of third parties, and provided legal services to one of the companies." Theoretically, his version is credible, given that Gvm Holdings core business is in fact providing legal and fiduciary consulting. The Gonzi case shows, nonetheless, what Malta has become in recent years: a European country in which lawyers and accountants have been serving any sort of people, sometimes even Mafiosi.
Another fact unveiled by scrutinizing the Maltese Registry of Companies is that the 'Ndrangheta officially entered business with some Israeli citizens. Thanks to software, these people can boost the profits the Calabrian Mafia reaps from the slot machines and online poker businesses. A case in point is Ehud Goldshmidt, nick-named "Udi". An Israeli citizen carrying a German passport and residing in Lecco, Northern Italy, Goldshmidt's name emerged in an investigation of the Anti-Mafia Bureau in Reggio Calabria on Senator Antonio Caridi, who was charged of being a member in the Calabrian criminal organization. What does Goldsmith have to do with the 'Ndrangheta? Allegedly there is a link here, because according to the Italian prosecutors, Goldsmith "is fully at the disposal of the Raso-Gullace clan," one of the most ill-famed and dangerous 'Ndrangheta families based in the plains of Gioia Tauro. The plains are the back land only miles away from the harbor where much of the cocaine bound for Europe lands on the continent. According to a Calabrian investigating court, Goldsmith – probed by the Anti-Mafia Bureau in Reggio Calabria - allegedly "favored the criminal enterprise's businesses, especially slot machine operations, in relation to the development of a software platform to manage online poker gaming to be developed in Israel and approved in Italy." The documents L'Espresso obtained confirm a Maltese corporate link between the 'Ndrangheta and the Israeli businessman. As a matter of fact, Goldsmith shows as shareholder in two companies: Wantedplay Limited and Beproga Limited. Both brands share two very specific features. They were founded by Stefania Casati, the wife of Antonio Pronestì, investigated on Mafia charges along with "Udi", and relative of the late boss of the clan by the same name, Girolamo Raso. Furthermore, both companies have on record as shareholder Noam Bartov, a computer technician, who is also an Israeli citizen.
More 'Ndrangheta, drug trafficking and gambling. This time, however, with no computer nerds as intermediaries. The name of the boss is Nicola Femia, also known as the "slot machine Lord". Following a 26-years term sentence on Mafia charges, he is now cooperating with investigating officers. He does not show up in the Maltese Registry of Companies. This is not the case, however, of Fernando Orlandi's name. Orlandi was for a few years the President of the Casinò Venezia on the Island, that is, the company through which the boss's daughter stated to have laundered a part of her own treasury — she was also sentenced in the first instance on Mafia charges. Linked to the Calabrian Mazzaferro clan, which already in the '80s was able to bring over every two months from South America to Italy around 3,000 pounds of cocaine, is Femia, a new generation boss. He shares his time and energies between his business and finance operations and high-up socialites' social opportunities. As the Mafioso told prosecutors himself, he had managed to take over into his corporate network half of the Italian gaming and slot machines market. On charges of having laundered part of her Dad's money also daughter Guendalina is under probe by the San Marino authorities. And it is here that, for the first time, the name of the clan shows up with a link to Casinò Venezia in Malta.
In defending herself from those charges, the boss's daughter said that the € 580,000 wired from her San Marino account to a Cypriot company were intended to fund "entrepreneurial operations in Malta related to Casinò Venezia." Top executive at the casino was at that time and until the end of 2013 the very Orlandi. Consequently, was boss Femia's money laundered thanks to Orlandi's willingness? This is a disturbing possibility, all the more so because 40% of the casino was property of the City of Venice, and therefore of the citizens of the Italian town. There is no doubt that the Maltese Registry of Companies contains evidence to a role played by Orlandi. A resident in London with Italian citizenship, Orlandi is shareholder holding minor stock in two companies on the Island. One is Casinò Venezia; the other is called Sportalnet Limited and officially states being a provider of "innovative digital gaming software and systems." Both companies have a commonality in a further shareholder. That is International Trust Ltd., a Maltese fiduciary company of which it is impossible to learn who hides behind.
Like big corporations, Mafia organizations also cooperate when needed, and they also need middle men capable of brokering a dialogue between them. The man is called Antonio Padovani. He is from Catania. Prosecutors believe him to have solid ties to Sicilian Cosa Nostra clans. Italy's Finance Guard seized goods from him on occasions. But there is more to the man: prosecutors with a court in Naples point to him as being the entrepreneur middle man between the Camorra and the Mafia as the management of bingo and slot machines halls is concerned. The 'Ndrangheta with Mario Gennaro would have liked to participate in this a joint venture as Gennaro himself told prosecutors. Emerging here is virtually a Mafia crime triad that chose to settle its main base in Malta. Leaving aside the case lead by the courts, it is a fact that the Maltese Registry of Companies shows the names of Patrizia Fazio and Luigi Fabio Padovani, the former the wife, the latter the son of Padovani, an entrepreneur from Catania. Both turn out to be also shareholders in Non Solo Bet Limited. What does the company do? Gaming, of course, but, alas once again, it is impossible to learn any details on the company's business operations. Despite five years of operating officially, Padovani's company never filed a balance sheet.
They call him "Scimmia" (Monkey) but they recognize in him an authority of a boss. Scimmia, whose real name is Alfonso Diletto, is believed to be the right hand of godfather Nicolino Grande Aracri, a higly respected 'Ndrangheta personage later emigrated to Emilia, a region in Central Italy. On charges of being an 'Ndrangheta boss last year Diletto was sentenced to 14 years on Mafia charges in the first instance, along with Giovanni Vecchi, a quick ladder-climbing entrepreneur from Reggio Emilia, who served time in jail for allowing the 'Ndrangheta to partner with him readily.
The partnership dealt with the building sector. Though his Save Group, Vecchi was in fact the owner of a small empire. He worked with large public and private tenders, which included the Caltagirone group (a very well-known businessman in Italy). The group won bids for a total of a half a billion euros worldwide, all across Eastern Europe to Africa. Italian investigators say that Diletto and Vecchi joined society in Save International in 2013 with the very goal of sharing the proceeds of those foreign contracts. Shortly after, they appointed director of the company Artur Azzopardi, a member in an important Maltese law firm. In other words, a valued professional on a Mafia boss' payroll. A repeat of the relation of former Prime Minister Gonzi's son with the companies of Calabrian boss Mario Gennaro.
La mafia dei cassonetti gialli: ecco come il crimine guadagna dagli abiti riciclati
Dai cassonetti gialli italiani finiscono in Tunisia e da lì sulle bancarelle dei mercati africani, attraverso un lucroso traffico gestito dalle mafie, soprattutto la camorra. È così che i vestiti usati del nostro paese e del Nord Europa - quelli che appunto vengono depositati nei cassonetti gialli, nella convinzione di fare un atto generoso per qualcuno - gonfiano invece il portafoglio della criminalità organizzata. E non va meglio per i rifiuti plastici mandati in Cina: materiale in certi casi contaminato, inutilizzabile negli stabilimenti europei, diretto a fabbriche inesistenti e smistato a destinazione dalle organizzazioni criminali. In un groviglio di traffici illeciti di rifiuti che unisce Genova a Tunisi e Sfax, Trieste e Livorno a Tianjin.
Tipi diversi di oggetti riciclati, rotte differenti, che però si incrociano attraverso faccendieri e case di spedizione specializzate in export illegale, in grado di falsificare documenti e dare consigli su come aggirare i controlli. È su questo mondo che sta facendo luce un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che vede coinvolte 98 persone e 61 società, con ipotesi di reato di associazione a delinquere e traffico illecito di rifiuti. Un malaffare che riguarda imprenditori impegnati a ridurre i costi all'osso, intermediari con ventiquattrore piene di contanti, consulenti e prestanome italiani e cinesi.
Quello degli abiti di seconda mano è uno dei settori in cui gli affari girano più forte, ma in modo spesso opaco. «Buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà finisce per alimentare un traffico dal quale camorristi e loro sodali traggono enormi profitti», ha rivelato uno degli ultimi report della fondazione antimafia Caponnetto. Ogni anno se ne raccolgono 110 mila tonnellate, per un giro d'affari di 200 milioni di euro che dalla Campania hanno portato anche su Prato gli interessi della camorra. Un settore contaminato da estorsione e usura e dalla presenza dei clan Birra-Iacomino e Ascione, sopravvissuto quasi indenne ai contraccolpi delle varie inchieste giudiziarie che negli anni lo hanno coinvolto, mai così ampie però come quella condotta dalla Dda di Firenze con Agenzia delle dogane e Corpo forestale.
Una delle prime è stata quella partita dall'omicidio di Ciro Cozzolino a Montemurlo, il paesino pratese degli stracci. "Ciro o' pazzo" venne freddato nel 1999 perché aveva assunto il predominio nel commercio degli abiti usati, intralciando così gli affari del clan. Per il suo omicidio nel 2013 sono stati condannati all'ergastolo anche Giovanni Birra e Stefano Zeno, considerati i capi del clan Birra. L'anno prima, i magistrati fiorentini hanno condannato l'imprenditore toscano dei vestiti usati Franco Fioravanti. Per arricchirsi e lavorare tranquillo, gestiva la sua Eurotess con il genero di Zeno, Emanuele Bagnati, facendo l'interesse del clan.
Le aziende di Prato, dove secondo la Direzione nazionale antimafia il clan Birra-Iacomino detiene il monopolio del commercio di stracci, acquistano gli indumenti raccolti in Italia e nel Nord Europa e li rivendono soprattutto in Tunisia. Una volta presi dai cassonetti gialli gestiti formalmente da associazioni benefiche e cooperative sociali, quegli abiti dovrebbero essere selezionati e igienizzati. E invece in diversi casi il trattamento viene solo dichiarato sulla carta: a subire la "sterilizzazione" sono piuttosto i controlli delle autorità.
Lo faceva la Eurotess di Fioravanti, ed è quello che secondo le indagini della Dda di Firenze succedeva in altre aziende del distretto pratese. «La disinfestazione? Io ho la pistola, ti fo' l'autocertificazione. (...) Se mi viene un controllo è sempre attaccata alla spina», dice un imprenditore intercettato dagli investigatori mentre parla al telefono con uno spedizioniere. Così, dentro ai container in partenza dal porto considerato di volta in volta più sicuro, finiscono nel migliore dei casi abiti non sanificati, oppure spesso direttamente i sacchetti buttati dai cittadini nei cassonetti gialli. Compresi oggetti di tutti i tipi finiti per sbaglio nei bidoni dei vestiti. «Dentro troviamo anche batterie esauste e attrezzi pericolosi», aveva detto già nell'ottobre 2015 alla commissione d'inchiesta del Parlamento sul ciclo dei rifiuti Edoardo Amerini, presidente del Consorzio abiti usati (Conau), che ha sede a Prato.
Proprio Amerini, friulano di nascita e residente a Treviso, è anche presidente e proprietario al 50 per cento di Tesmapri, colosso nella commercializzazione degli indumenti usati di Montemurlo. La società, che nel 2015 ha fatturato più di 16 milioni di euro, da sola tratta circa un terzo di tutti gli stracci raccolti in Italia. Amerini, anche lui indagato, è uno dei personaggi chiave del settore, rinviato a giudizio nel 2013 per traffico illecito di rifiuti insieme ai due soci, Antonio Bronzino, di Ercolano, e la pratese Federica Ugolini, figlia del fondatore di Tesmapri Aldo, il «re degli stracci» anche lui tra gli imputati nel processo iniziato quattro anni fa e ancora in corso.
Un crocevia di rapporti Per la Dda di Firenze, Tesmapri è l'azienda che ha realizzato maggiori profitti dalle spedizioni considerate irregolari: inviando in Tunisia 25 mila tonnellate di rifiuti tessili avrebbe prodotto un giro d'affari di oltre 14 milioni di euro. È in buona compagnia: tra le società indagate ci sono infatti la Bz, che spedendo in Tunisia 6mila tonnellate di abbigliamento di seconda mano avrebbe generato un profitto di quasi 5 milioni di euro, la Viltex e la Eurofrip, che avrebbero guadagnato quasi 4 milioni di euro per 4mila tonnellate e la Eurotrading International, che inviando nel Paese insieme a Tesmapri circa 4mila tonnellate avrebbe beneficiato di quasi 3 milioni di euro.
Tesmapri è anche il crocevia di rapporti che non appaiono sempre trasparenti. L'azienda ha tra i suoi addetti commerciali il biellese Stefano Piolatto, condannato in passato per usura e allo stesso tempo anche consigliere della cooperativa veneta Integra, attiva nel settore degli indumenti usati. Nella compagine societaria dell'impresa di Montemurlo c'è stato anche l'ercolanese Giovanni Borrelli, «imputato anche di avere avuto ruoli in imprese in odore di camorra», come mette a verbale il deputato Stefano Vignaroli durante l'audizione in commissione Ecomafie di Amerini, che si difende: «Non si è mai presentato a nessun collegio sindacale».
Non solo: Tesmapri ha tra i suoi partner commerciali la società pratese ora in liquidazione Eurotrading International, guidata da Ciro Ascione, figlio di Vincenzo Ascione, entrambi indagati anche nell'inchiesta della Dda di Firenze. Quest'ultimo, originario di Torre del Greco e procuratore speciale della ditta di famiglia, è considerato dagli inquirenti «in collegamento d'interesse» con il clan Birra-Iacomino. È stato condannato all'ergastolo e poi assolto nel 2004 per l'omicidio di Ciro Cozzolino. Un pentito lo ha di nuovo accusato nel 2009, ma non poteva essere processato di nuovo per lo stesso reato. Oggi Vincenzo Ascione è latitante in Tunisia, dove si occupa sempre del business degli abiti usati ed è stato condannato in primo grado insieme al figlio per usura ai danni di un autosalone del pistoiese. Nell'inchiesta della Dda di Firenze c'è anche un'altra azienda pratese ora fallita, la New Trade dei fratelli Franco e Nicola Cozzolino, già coinvolta nella riconversione-bluff della fabbrica Golden Lady di Gissi, in Abruzzo. Secondo gli investigatori avrebbe dichiarato igienizzazioni di abiti in realtà mai avvenute.
Da Prato però non partono solo gli indumenti usati, ma anche i ritagli tessili delle tante ditte cinesi di abbigliamento che hanno messo radici nella città. In questo caso i rifiuti vanno in Vietnam e in Cina, e a effettuare le spedizioni verso l'estremo oriente sono le stesse aziende cinesi, spesso prestando il proprio nome per qualche centinaio di euro: è sufficiente mentire sul contenuto dei contenitori e sperare di non essere sbugiardati dai controlli.
Ma le imprese cinesi del tessile sono buone per tutte le situazioni: a Prato si prestano a fare da paravento anche a spedizioni di scarti plastici. Gli altri anelli della filiera del malaffare sono gli spedizionieri e un manipolo di faccendieri cinesi in stretto contatto con le imprese della madrepatria, sempre a caccia di plastica da pagare bene e subito, senza troppe domande.
Quei container abusivi Le esportazioni di rifiuti plastici in Cina sono permesse a patto che organizzatore dell'esportazione e destinatario abbiano specifiche licenze rilasciate dalle autorità di quel Paese. In molti casi, tutto si gioca sull'interpretazione della norma: per molte imprese italiane la plastica pronta per il riciclo è una semplice merce e dunque non deve rispettare questi requisiti, per le autorità doganali bisogna attenersi alla normativa cinese, più restrittiva. Un orientamento confermato anche da alcune sentenze della Cassazione. Ma al di là del cavillo normativo, le indagini della Dda di Firenze hanno individuato centinaia di spedizioni di plastica in cui si usavano licenze di terzi, a volte conniventi e ricompensati per il disturbo, altre volte persino ignari. Container che a destinazione potrebbero essere stati presi in consegna da organizzazioni criminali cinesi, e smistati in impianti abusivi.
Così negli anni un mare di plastica è finito a saziare, non sempre in maniera lecita, l'industria cinese affamata di materiali. Carichi in certi casi anche contaminati e inutilizzabili negli stabilimenti europei, a volte fatti passare attraverso le dogane con una qualifica diversa da quella reale. «Ne abbiamo tre (container) che non hanno dentro le polveri, ma hanno dentro i 400 ppm di metallo. Va bene. Non se ne accorgono neanche, è sempre andata», dice un'imprenditrice, intercettata al telefono con un intermediario.
«Quando non si segue l'iter autorizzativo corretto, si perde la tracciabilità del rifiuto. Così c'è il rischio che certi scarti anche contaminati di cui si sono smarrite le tracce ci tornino indietro sotto forma di oggetti come biberon e giocattoli dannosi per la salute e frutto di pratiche di concorrenza sleale», spiega la direttrice del consorzio Polieco Claudia Salvestrini, che ha denunciato il problema in più di un'audizione parlamentare.
E c'è anche l'evasione Dietro ai traffici si cela spesso anche l'evasione fiscale: i carichi vengono pagati prima della partenza con bonifico da parte dell'azienda cinese, ma nella pratica il conto è più salato e viene saldato di persona dai faccendieri. «Digli a Jimmy (…) di preparare 25 mila euro al nero e li portiamo», dice al telefono intercettato un intermediario italiano a una collega cinese, che subito lo bacchetta per la troppa disinvoltura: «Non dire per telefono nero o bianco, dai…».
Secondo le indagini della Dda, a commettere le irregolarità sarebbero stati anche colossi del settore del riciclo, come la trevigiana Aliplast e la bergamasca Montello, entrambe indagate. La prima, che fattura quasi 90 milioni di euro, è stata acquisita dalla multiutility Hera. La seconda invece, con un giro d'affari di 80 milioni, è l'impianto più grande d'Italia in cui gli imballaggi della raccolta differenziata vengono trasformati in materiale riutilizzabile nei processi produttivi: tratta ogni anno 150 mila tonnellate di rifiuti plastici. Secondo le stime contenute nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, Montello, con quasi duemila tonnellate di materiali spediti, avrebbe generato un giro d'affari illecito di 1,3 milioni di euro, a cui si aggiungono altri 1,2 milioni provenienti da un altro "lotto" di spedizioni da oltre 4.500 tonnellate.
Impianto fotovoltaico ad uso individuale su lastrico solare condominiale
In che modo bisogna comportarsi e quali possono essere le conseguenze per il condomino che abbia installato sul lastrico solare – senza alcuna comunicazione all'amministratore – un impianto fotovoltaico ad uso personale?
Lo chiede, nella sostanza, un utente del nostro forum. Questo il suo post nella discussione:
"Qualora siano stati installati da un condomino sul lastrico solare pannelli fotovoltaici senza neppure comunicare nulla all'amministratore, questo quali poteri avrebbe per verificare che siano stati rispettati i diritti di tutti?"
La questione è chiaramente disciplinata, per le installazione avvenute dopo l'entrata in vigore della riforma del condominio, dall'art. 1122-bis c.c. e prima di esse dalle prescrizioni indicate dall'art. 155-bis disp. att. c.c.
Vediamo nel dettaglio di che cosa si tratta.
Innanzitutto va detto che, salvo limiti pattizi, i condòmini hanno diritto di utilizzare le parti comuni al fine dell'installazione d'impianti fotovoltaici (e simili) ad uso personale.
È chiarissimo sul punto l'art. 1122-bis, secondo comma, c.c. a mente del quale:
"È consentita l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato".
Questa facoltà, tuttavia, è subordinata ad una preventiva comunicazione all'amministratore, che a sua volta deve investire l'assemblea della questione.
Condizioni della comunicazione e poteri dell'assemblea sono specificati dal successivo terzo comma, che recita:
"Qualora si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni, l'interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.
L'assemblea può prescrivere, con la maggioranza di cui al quinto comma dell'articolo 1136, adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio e, ai fini dell'installazione degli impianti di cui al secondo comma, provvede, a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto.
L'assemblea, con la medesima maggioranza, può altresì subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali".
L'inciso finale del quarto e ultimo comma dell'articolo in esame chiarisce che gli impianti di cui trattasi non sono soggetti ad autorizzazione. Insomma l'assemblea può dire come fare ed eventualmente dove fare, ma non può negare di utilizzare le parti comuni ai fini delle installazioni di cui stiamo trattando.
È chiaro, allora, che se l'impianto di cui ci parla il nostro lettore rientri nell'ipotesi disciplinata dal terzo comma, allora egli avrebbe dovuto darne comunicazione all'amministratore e non avendolo fatto è incappato in una violazione dell'art. 1122 c.c. che può portarlo in un contenzioso finalizzato alla valutazione della legittimità dell'installazione e quindi, eventualmente, ad un ordine di rimozione o quanto meno di spostamento.
E per gli impianti installati prima dell'entrata in vigore della riforma del condominio (legge n. 220/2012)?
Rispetto ad essi, si diceva in principio, il riferimento è quello contenuto nell'art. 155-bis disp. att. c.c. che recita:
"L'assemblea, ai fini dell'adeguamento degli impianti non centralizzati di cui all'articolo 1122-bis, primo comma, del codice, già esistenti alla data di entrata in vigore del predetto articolo, adotta le necessarie prescrizioni con le maggioranze di cui all'articolo 1136, commi primo, secondo e terzo, del codice".
Come dire: laddove l'impianto fosse già presente e quindi non poteva dirsi violato l'art. 1122-bis c.c. l'assemblea può comunque intervenire per mettere ordine.
Sui pannelli solari l'assemblea può solo stabilire le modalità
L'assemblea non può negare l'autorizzazione a un condomino di installare sul tetto comune dell'edificio i pannelli solari per la produzione di energia a suo uso personale. Può solo limitarsi a prescrivere adeguate modalità alternative di esecuzione dell'intervento, se questo comporta la modifica delle parti comuni, o a imporre le opportune cautele a salvaguardia delle stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio: il tutto con una delibera che deve essere approvata con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti in assemblea e i due terzi del valore dell'edificio.
Con le stesse maggioranze può decidere sulla ripartizione dell'uso delle parti comuni interessate dalla posa dei pannelli solari, nel caso in cui più condomini ne facciano contestuale richiesta. Lo ha chiarito il tribunale di Milano che, nella sentenza 11707 del 7 ottobre scorso, ha applicato le disposizioni dell'articolo 1122-bis del Codice civile, introdotto dalla riforma del condominio (legge 220/2012).
Il caso è stato sollevato da un condomino, che aveva impugnato la decisione con cui l'assemblea gli aveva vietato – sulla base di generiche e non provate problematiche inerenti alla lesione del decoro architettonico e della stabilità dell'edificio condominiale – di posizionare sul tetto comune i pannelli fotovoltaici a proprio uso esclusivo. L'articolo 1122-bis del Codice civile concede la possibilità al condomino, tra l'altro, di installare pannelli solari senza necessità di ottenere il preventivo consenso dell'assemblea, sulla falsariga di quanto disposto dall'articolo 1102, comma 1, del Codice civile, di cui l'articolo 1122-bis costituisce ipotesi applicativa.
L'intervento deve però essere eseguito in modo tale da arrecare il minor pregiudizio possibile sia alle parti comuni dell'edificio, sia alle unità immobiliari di proprietà dei singoli condomini. Tanto che l'articolo 1122-bis, al comma 3, impone al condomino di interpellare l'assemblea solo qualora le opere che intende eseguire comportino delle modificazioni delle parti comuni interessate dai lavori, obbligandolo a indicare all'amministratore il «contenuto specifico» degli interventi e le «modalità» con cui vuole porli in essere. L'assemblea, pertanto, è chiamata a intervenire solo quando l'impianto voluto dal condomino renda necessario modificare le parti comuni condominiali.
In questo caso, si applica l'articolo 1102 del Codice civile, secondo cui ciascun condomino può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Senza interpellare l'assemblea, il condomino è dunque legittimato a installare, in base all'articolo 1122-bis del Codice civile, un proprio impianto per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Nel caso esaminato, il giudice milanese ha ritenuto che il comportamento dell'assemblea, negando al condomino il consenso all'installazione dell'impianto fotovoltaico, abbia esercitato una facoltà non consentita dalla legge e abbia violato il diritto soggettivo di un condomino all'utilizzo delle parti comuni. Il tribunale ha quindi dichiarato l'invalidità della delibera dell'assemblea.
Condominio: assemblea non può negare l'installazione di pannelli solari sul tetto
A fronte della richiesta di un condomino, l'assemblea non può negargli la possibilità di installare, sul tetto comune dell'edificio, i pannelli fotovoltaici per la produzione di energia ad uso personale, potendo limitarsi a prescrivere, se tale iniziativa comporta la modifica delle parti comuni e con una maggioranza qualificata, adeguate modalità alternative di esecuzione dell'intervento, o ad imporre le opportune cautele a salvaguardia delle stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico.
Il fatto
Il giudizio prendeva le mosse da un'impugnativa di un condomino avverso la delibera, con cui l'assemblea non lo aveva autorizzato a posizionare, sul tetto comune, otto pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica ad uso personale, evidenziando vizi formali della statuizione (sotto il profilo di un'erronea verbalizzazione) e prospettando un eccesso di potere del massimo organo gestorio (specie alla luce dei nuovi poteri conferitigli dalla Riforma del 2013).
Il Condominio si costituiva in giudizio, giustificando il diniego di tale nulla-osta, per il difetto delle necessarie informazioni sulla suddetta iniziativa del condomino, per il pregiudizio alla statica e al decoro architettonico dello stabile, nonché per l'abuso della cosa comune da parte del singolo partecipante.
La decisione
Sotto il profilo formale, il giudice meneghino ha accertato che, dal verbale assembleare, non si evinceva l'indicazione dei nominativi dei condomini votanti, sicché risultava preclusa la verifica della stessa sussistenza di una votazione, dell'esito di quest'ultima, della necessaria maggioranza per teste e delle eventuali posizioni di conflitto di interesse.
Ciò si poneva in aperto contrasto con quanto affermato concordemente dalla magistratura di vertice, secondo la quale, ai fini della validità delle delibere assembleari, devono essere individuati, e riprodotti nel relativo verbale, i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti - ed ora anche degli astenuti - nonché i valori delle rispettive quote millesimali, pur in assenza di un'espressa disposizione in tal senso; tale individuazione è, infatti, indispensabile per l'accertamento dell'esistenza dei quorum contemplati dall'art. 1136, commi 2, 3 e 4, c.c., ai fini della validità dell'approvazione delle delibere con riferimento anche all'elemento reale (quota proporzionale dell'edificio espressa in millesimi); inoltre, essendo il potere di impugnazione riservato ai condomini dissenzienti ed astenuti (oltre che agli assenti), è necessario indicare, fin dal momento dell'espressione del voto, i partecipanti al condominio legittimati all'azione di cui all'art. 1137, comma 2, c.c.
Dalla non conformità alla legge dell'omissione dell'indicazione nominativa dei singoli condomini favorevoli e di quelli contrari e delle loro quote di partecipazione al condominio, nonché della riproduzione di tali elementi nel relativo verbale, discendeva l'esclusione della presunzione di validità della delibera assembleare priva di quegli elementi, indispensabili ai fini della verifica della legittima approvazione della delibera stessa, per cui, su tale versante, la delibera risultava viziata ed è stata giustamente annullata dal tribunale lombardo.
Ma, ad avviso di quest'ultimo, la stessa delibera si palesava "vieppiù illegittima" per avere l'assemblea condominiale esercitato una facoltà non consentita dal nuovo testo dell'art. 1122-bis c.c., norma introdotta dalla Legge n. 220/2012 (a decorrere dal 18 giugno 2013) proprio al fine di facilitare l'uso del singolo delle parti comuni dell'edificio per l'installazione di impianti fotovoltaici volti alla produzione di energia da fonti non inquinanti ed al contenimento dei consumi energetici.
Nello specifico, tale norma prevede che "é consentita l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato" (comma 2), stabilendo che, soltanto "qualora si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni, l'interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi" (comma 3); in tal caso, l'assemblea - debitamente sollecitata dal medesimo amministratore - può prescrivere, con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 5, c.p.c., "adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio" e, "provvede, a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto"; inoltre, la stessa assemblea, con il quroum di cui sopra, può anche "subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali".
Nella fattispecie sottoposta al vaglio del giudice milanese, risultava ex actis che il condomino impugnante aveva tempestivamente notiziato l'amministratore dell'intenzione di installare gli otto pannelli fotovoltaici sul tetto comune dell'edificio, allegando, a corredo di tale richiesta, un progetto attestante l'ubicazione della posa di tali manufatti, indicati anche nella forma in un apposito schema, con ciò rispettando il suddetto disposto in ordine al "contenuto specifico" e alle "modalità di esecuzione" dell'iniziativa de qua.
Stando così le cose, correttamente si è ritenuto che l'assemblea, verificata tale situazione, non era legittimata a negare tout court l'intervento del condomino, ma, se del caso, sempre che l'iniziativa del singolo interessasse le parti comuni dello stabile in senso modificatorio, poteva unicamente imporre modalità alternative, prescrivere adeguate cautele, subordinare l'esecuzione alla prestazione di una garanzia, ripartire l'uso del bene comune salvaguardando le diverse forme di utilizzo (facoltà, queste ultime, dettagliatamente specificate dal legislatore e subordinate al raggiungimento di un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio).
Pertanto, l'art. 1122-bis, al comma 3, impone al condomino di interpellare l'assemblea, per il tramite dell'amministratore, qualora le opere che intende eseguire comportino delle "modificazioni delle parti comuni" e solo in tale ipotesi l'assemblea è chiamata a deliberare (per il resto, argomentando ex comma 1, l'intervento del singolo deve pur sempre essere eseguito "in modo tale da arrecare il minor pregiudizio alle parti comuni dell'edificio e alle unità immobiliari di proprietà individuale").
Al di fuori di tale coinvolgimento, si applica l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun condomino può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, sicché, fermi i due limiti di cui sopra, senza instaurare il dibattito assembleare, il condomino è legittimato ad installare, in base all'art. 1122-bis c.c., un proprio impianto per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
In fondo, l'art. 1122-bis c.c., concedendo la possibilità al condomino di installare pannelli fotovoltaici senza la necessità di ottenere il preventivo consenso dell'assemblea, si pone sulla falsariga di quanto disposto dall'art. 1102, comma 1, c.c., di cui la prima norma costituisce un'ipotesi applicativa.
Nel caso in esame, non era stata fornita la prova del fatto che la posa degli otto pannelli, ad opera del condomino attore, avesse leso il decoro architettonico dell'edificio oppure avesse compromesso la stabilità o la sicurezza del fabbricato; parimenti, non si era dimostrato, a seguito di tale iniziativa, alcun pregiudizio a danno degli altri partecipanti, né alcuna alterazione della destinazione della cosa comune, posto che il tetto condominiale interessato dai lavori continuava ad assolvere la naturale funzione di copertura dello stabile (tutto ciò, d'altronde, rimanendo impregiudicato l'uso potenziale della res comune da parte dei rimanenti condomini, da intendersi non come uso necessariamente identico e contemporaneo di quello dell'attore).
L'avere, al contrario, semplicemente negato al condomino richiedente l'autorizzazione ad espletare i lavori aveva fatto sì che l'assemblea si fosse posta in contrasto con la legge "esorbitando dalle proprie attribuzioni" e violando in concreto il diritto soggettivo di un condomino all'utilizzo delle parti comuni, il che ha comportato, anche sotto questo profilo, l'invalidità della delibera impugnata.
Esito del ricorso
Accoglimento della domanda.
Precedenti giurisprudenziali
Cass., sez. II, 16 giugno 2005, n. 12873; Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806; Cass., sez. II, 29 gennaio 1999, n. 810; Cass., sez. II, 9 novembre 1998, n. 11268.