LA MAGGIOR parte dei nostri telefoni contiene minerali provenienti da zone di guerra. Oppure metalli scavati a mani nude da bambini e lavoratori schiavizzati. Fairphone non ce li mette, semplicemente. Fairphone è una piccola azienda olandese che è nata con lo scopo di realizzare un telefono "equo e solidale", un telefono di ultima generazione ma robusto, efficiente e open source. E Fairphone2 è il nome del secondo modello di questo dispositivo etico appena messo in vendita sul sito dell'azienda: è un 4G, monta il sistema operativo Android e ha una doppia SIM. Veloce, versatile e robusto, è concepito per essere modificato sia a livello software che a livello hardware perché le parti che si usurano possono essere sostituite.
Ma andiamo con ordine. Qualcuno ricorderà la campagna "Niente sangue nel mio GSM". Negli anni scorsi infatti, diverse organizzazioni umanitarie con questo slogan avevano voluto mettere in risalto il fatto che la maggior parte delle componenti preziose dei telefonini - oro, stagno, tungsteno - venissero da zone di guerra. In particolare Repubblica aveva raccontato delle "guerre del coltan", un composto, la columbite-tantalite, da cui si ricavano il tantalio e il niobio, fondamentali per dare certe caratteristiche di conduzione e resistenza ai telefonini. Estratti prevalentemente nella regione del Congo in Africa, e commerciati da organizzazioni criminali e paramilitari per finanziarsi, il loro contrabbando è stato alla base di molti conflitti bellici e secondo le Nazioni Unite, della guerra civile nel paese. Ecco, Fairphone pretende di usare "conflict-free minerals", ovvero minerali la cui raccolta non produca conflitti e guerre né nella zona del Congo né altrove. Per fare questo i giovani imprenditori di Fairphone avviato da due anni una ricognizione sul posto del modo di operare dei loro fornitori e hanno deciso di rifornirsi solo da quelli che davano adeguate garanzie di rispettare l'ambiente, i diritti dei lavoratori, la libera concorrenza e le leggi statuali. Ogni volta che questi principi non erano rispettati, facevano due cose: cambiare fornitore spostandosi perfino dall'Africa in America Latina, oppure, dove era possibile, avviare delle partnership scientifiche ed educative coi produttori. E scegliendo spesso la seconda opzione per non deprimere ulteriormente l'economia di quei paesi e facendo accordi perché ne fosse garantita una produzione legale.
Visto che gran parte dei componenti in oro che rendono resistenti ed efficienti i nostri telefoni veniva realizzata in Cina hanno poi deciso di andare a vedere se la loro materia prima provenisse da miniere regolari. Scoperto che quell'oro non poteva sempre essere certificato, hanno deciso di risalirne la catena produttiva chiedendo aiuto a FairTrade international, la fondazione che in tutto il mondo garantisce se caffè, zucchero, cacao, giocattoli e artigianato sono prodotti secondo i principi dell'altromercato, cioè del mercato equo e solidale. E oggi ne hanno realizzato una prima mappatura pronti a certificare i proprio telefonini come "puliti" e "senza sangue". Il primo Fairphone ha visto la luce nel 2013: usava solo stagno e tantalio congolesi certificati. Ma prima Fairphone aveva stretto un accordo etico e commerciale coi suoi produttori in Cina (a Guohong e poi a Suzhou), ottenendo migliori condizioni di lavoro per gli operai. Poi ne hanno studiato l'impronta ecologica, e in base all'analisi del ciclo di vita hanno organizzato sia le modalità produttive che l'esportazione e il riciclo (aprile 2014) del telefono per arrivare a un design che fosse in grado di supportare delle modifiche al telefono stesso. Dal Ghana hanno cominciato a importare telefonini buttati per recuperarne i materiali da usare nel Fairphone e hanno cominciato a vendere attraverso il proprio sito i ricambi per il telefonino offrendo insieme ad iFixit dei tutorial per imparare a sostituirne le parti usurate. Adesso sono arrivati a fornire le istruzioni per stampare in 3D la cover dei telefonini e sono pronti al rilascio del codice sorgente del software che fa funzionare i telefonini. Hanno già prevenduto oltre ottomila Fairphone2 dal loro sito. "È bello, funziona bene e - spiega Valentina, volontaria di una Onlus che si occupa di migranti che si trova in in Puglia - mi fa sentire meglio sapere che è garantito da giovani come noi che mettono il valore delle vita umana davanti al profitto". In questo momento nel mondo ci sono 60.000 Fairphone. E un po' di bontà in più.
Dieci grandi libri con titoli altrettanto strepitosi da Stephen King a Stefano Benni, da Irving a Scerbanenco. Ecco perché "I milanesi ammazzano il sabato".
1) Il mondo secondo Garp La prova provata che un bestseller mondiale non deve essere necessariamente una schifezza. Drammatico e ironico, appassionato e lucido, il capolavoro di John Irving ha però due grandi colpe: a) da quando è uscito, nel 1978, il titolo è stato plagiato alune centinaia di miliardi di volte per raccontare il punto di vista praticamente di chiunque (Il mondo secondo Andreotti, Il mondo secondo il mio gatto ecc), e b) l'orribile film tratto dal volume.
2) Il più grande uomo scimmia del Pleistocene Pubblicato per la prima volta più di cinquant'anni fa, è un altro libro che ha schiere di seguaci adoranti. Roy Lewis racconta la storia di un gruppo di ominidi in Africa centrale durante il Pleistocene, e in particolare segue Edward, il brillante inventore. L'effetto straniante di un gruppo di primitivi che parla come se si trovasse in un cottage inglese vi sbalordirà.
3) Il mio ragazzo è un genio, me l'ha detto lui. E' il primo libro di Gianfranco Marziano, il re incontrastato della cultura underground italiana, e raccoglie il meglio della sua produzione giovanile. Tra i principi di fisica (un uomo scostumato, immerso improvvisamente in un liquido, bestemmia) e recensioni cinematografiche (Agente 007 licenza media inferiore, Dalla Cina col trerruote) si ride, letteralmente, fino alle lacrime. Adesso si trova in un unico volume, con tutti i suoi romanzi. Un affarone.
4) La cultura del piagnisteo. Il linguaggio politico – e ciò vale in vario grado per tutte le parti politiche, dai conservatori agli anarchici – è inteso a far sembrare veritiere le menzogne e rispettabile ogni nefandezza, e dare una parvenza di solidità all'aria fritta. Questa succosa citazione orwelliana che ci propone Robert Hughes nel libro (una raccolta di conferenze, una più bella dell'altra) spiega meglio di quanto potrei fare io il succo del discorso, e cioè: quanto siamo diventati cretini, con questa mania del politicamente corretto. La risposta è implicita: troppo, davvero troppo.
5) La donna quando non capisce si innamora. Come tutti i libri di Maurizio Milani, è impagabile già dal titolo. Un comico spettacolare, uno scrittore di primissimo ordine, che purtroppo trova sempre meno spazio sui media. Sarà perché dice come queste: "Una volta, per Che tempo che fa, avevo scritto uno dei miei pezzi surreali, tipo io che invito Giovanna Melandri al McDonald's per un caffè e lei sviene. In redazione mi chiedono: al posto della Melandri puoi mettere la Prestigiacomo?". Poi si lamenta che non lo fanno lavorare.
6) Estensione del dominio della lotta. Prima che cominciasse a litigare pubblicamente con la sua famiglia; Houellebecq ha fotografato una parte del mondo moderno, congelandola in una serie di ritratti tanto violenti quanto agghiaccianti. Questo libro, in particolare, è uno dei migliori esordi degli ultimi anni.
7) Bar Sport. L'edizione che campeggia in bella vista nella mia libreria (la prima, lo dico con grande orgoglio), è del marzo 1976. Da allora, questo capolavoro della comicità non ha perso assolutamente nulla della sua bellezza e del suo smalto satirico. Semmai siamo noi italiani ad essere invecchiati e a fargli da specchio nascosto in soffitta. Perché non si dica che cito solo titoli alla Wertmuller.
8) It Non lo traduci perché non lo puoi tradurre. Due sole lettere delRe Stephen King per scrivere il più bel romanzo sull'amicizia nell'adolescenza mai scritto, mascherandolo da horror. Non storcete il naso: se dai tuoi libri fanno film Kubrick, De Palma, Romero, Cronenberg, Reiner, Carpenter, Hackford e comunque, gira e volta, sono sempre meglio i libri, qualcosa vorrà dire.
9)Breve storia di (quasi) tutto. Magari non ci credete, ma Bill Bryson, a raccontare la storia di quasi tutto ci prova davvero, e ci riesce. Col suo solito humour e con una competenza e un lavoro che ha quasi dell'incredibile. Provate, poi mi fate sapere a comodo vostro.
10) I milanesi ammazzano al sabato Perché durante la settimana si lavora, e c'è il rischio che ti rispondano come nella Vita agra a Tognazzi: và a lavurà che l'è mei. Un capolavoro, come tutto quello che scriveva Scerbanenco, e in più c'è Duca Lamberti.
Una notizia che arriva da un altro secolo: è morto ieri il comandante Emilio Bianchi, 103 anni. Era l'ultimo dei "fantastici 6", gli incursori subacquei della Regia marina italiana che nella notte del 18 dicembre del 1941, nel porto di Alessandria d'Egitto, affondarono due corazzate britanniche e una nave ausiliaria con i loro tre mini-sommergibili, i "maiali".
Emilio Bianchi allora era un "palombaro capo" ed era il secondo sul "siluro a lenta corsa" (il "maiale") del comandante della missione, il marchese e tenente di vascello Luigi Durand de la Penne.
I sei incursori della Marina erano stati sbarcati dal sommergibile Scirè poche miglia al largo di Alessandria: entrarono di notte nel porto approfittando del fatto che gli inglesi avevano abbassato le reti di protezione per fare entrare tre cacciatorpediniere.
Da quel momento, dopo 5 ore di immersione e di lavoro subacqueo durissimo, i 6 italiani riuscirono a piazzare le cariche dei loro tre maiali sotto le corazzate Queen Elizabeth e Valiant e sotto la nave cisterna Sagona, affiancata al cacciatorpediniere Jervis.
La missione era iniziata con la partenza del sommergibile Scirè dalla Spezia il 3 dicembre: comandato dal tenente di vascello Junio Valerio Borghese (che dopo l'8 settembre rimase con la sua X Mas a combattere con i nazisti) il battello fece scalo in un porto italiano dell'Egeo per imbarcare gli incursori che arrivarono in aereo il 14.
L'attacco ad Alessandria era previsto il 17 dicembre, ma il mare mosso fece ritardare l'azione. Fra l'altro, nel suo trasferimento dall'Italia verso la in Grecia, lo Scirè mentre era in emersione fu avvistato da un ricognitore britannico. Gli italiani salutarono allegramente il pilota inglese, e gli lanciarono con il segnalatore ottico i codici luminosi concordati per quel giorno fra aerei e navi della Royal Navy, simulando di essere un battello britannico. Il servizio segreto italiano era riuscito ad intercettare la lista dei segnali convenzionali concordati dall'Ammiragliato di Londra.
La notte del 18 i tre "maiali" si avvicinarono al porto in scia ai tre caccia inglesi. Gli incursori dovevano poi dividersi, navigare in immersione fin sotto la chiglia delle navi, piazzare le cariche ad orologeria, abbandonare il maiale ed emergere lontano dal porto per provare a fuggire.
De la Penne e Bianchi furono protagonisti dell'episodio più movimentato: dopo ore di movimento, il respiratore ad ossigeno del palombaro-capo andò in avaria, il sottufficiale - intossicato - fu costretto ad emergere e arrestato dalle sentinelle. De la Penne dovette continuare il lavoro da solo. Mentre gli inglesi iniziavano a interrogare pesantemente Bianchi per capire quali fossero i piani italiani (quali navi? quante cariche?), de la Penne trascinò il maiale sul fondo del porto, scollegò la testata esplosiva da solo e la piazzò sotto la chiglia della Valiant. Riemergendo stremato, anche lui fu arrestato. Il comandante della Valiant fece interrogare duramente De La Penne che dichiarò di essere ufficiale italiano ma non rivelò il piano d'azione. Gli inglesi lo misero in una cella della nave sotto la linea di galleggiamento: sarebbe affondato con la nave se ci fosse stata un'esplosione Alle 5,30, mezz'ora prima del scoppio, de la Penne chiamò gli inglesi e chiese di poter parlare col comandante: "Signore, le suggerisco di far evacuare la nave, fra poco ci sarà un 'esplosione". Il comandante lo ringraziò, fece evacuare buona parte dell'equipaggio, ma fece riportare De La Penne e Bianchi nella cella sotto la linea di galleggiamento
Alle 6 l'esplosione sfondò la carena della Valiant e la fece adagiare sul fondo del porto: i due italiani si salvarono, e vennero evacuati dagli inglesi che li tennero prigionieri fino al termine della guerra. Anche altri due incursori vennero catturati dagli inglesi, anche se riuscirono ad affondare una petroliera e danneggiare un incrociatore. Mentre la terza coppia, quella di Antonio Marceglia e Spartaco Schergat, con il "maiale" era riuscita nella missione perfetta. I due militari affondarono la Queen Elizabeth, si sganciarono per tempo e riuscirono a fuggire dal porto. Purtroppo vennero catturati il giorno successivo, perché il Servizio informazioni militari li aveva riforniti di lire egiziane non più in corso: loro provarono a spacciarsi per marinai francesi, ma i commercianti egiziani ai quali si erano rivolti li passarono agli inglesi.
Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha ricordato il palombaro capo Bianchi (promosso poi ufficiale dopo la prigionia e la fine della guerra): "Si è spento oggi l'ultimo degli eroi dell'impresa di Alessandria d'Egitto, dove il coraggio e l'ardimento permisero di ottenere altissimi risultati", dice la Pinotti. Con lei il capo di stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano.
La Marina Militare nel dopoguerra ha venerato e rispettato gli uomini di Alessandria d'Egitto e quelli che portarono a segno un attacco simile a Gibilterra. L'ultima unità che è stata dedicata da uno di questi eroi, il caccia "Durand de la Penne", nell'agosto dell'anno scorso si è fermata nel porto dei docks di Londra per una visita degli allievi dell'Accademia navale. A bordo del "de La Penne", accanto alla plancia, gli ufficiali inglesi ospiti del comandante italiano hanno tutti guardato e letto con rispetto le fotografie e le lettere che ricordano ai giovani marinai italiani chi fosse de La Penne e cosa avevano fatto quei "magnifici 6" combattendo contro la Royal Navy nel porto di Alessandria.
Ma d'altronde dopo la fine della guerra era stato un ufficiale britannico, proprio il comandante del Valiant sir Charles Morgan, ad appuntare sulla divisa dei 6 uomini la medaglia d'oro che la Marina della Repubblica italiana assegnò a quegli incursori. Ufficiali e gentiluomini di un altro secolo
Una notizia che arriva da un altro secolo: è morto ieri il comandante Emilio Bianchi, 103 anni. Era l'ultimo dei "fantastici 6", gli incursori subacquei della Regia marina italiana che nella notte del 18 dicembre del 1941, nel porto di Alessandria d'Egitto, affondarono due corazzate britanniche e una nave ausiliaria con i loro tre mini-sommergibili, i "maiali".
Emilio Bianchi allora era un "palombaro capo" ed era il secondo sul "siluro a lenta corsa" (il "maiale") del comandante della missione, il marchese e tenente di vascello Luigi Durand de la Penne.
I sei incursori della Marina erano stati sbarcati dal sommergibile Scirè poche miglia al largo di Alessandria: entrarono di notte nel porto approfittando del fatto che gli inglesi avevano abbassato le reti di protezione per fare entrare tre cacciatorpediniere.
Da quel momento, dopo 5 ore di immersione e di lavoro subacqueo durissimo, i 6 italiani riuscirono a piazzare le cariche dei loro tre maiali sotto le corazzate Queen Elizabeth e Valiant e sotto la nave cisterna Sagona, affiancata al cacciatorpediniere Jervis.
La missione era iniziata con la partenza del sommergibile Scirè dalla Spezia il 3 dicembre: comandato dal tenente di vascello Junio Valerio Borghese (che dopo l'8 settembre rimase con la sua X Mas a combattere con i nazisti) il battello fece scalo in un porto italiano dell'Egeo per imbarcare gli incursori che arrivarono in aereo il 14.
L'attacco ad Alessandria era previsto il 17 dicembre, ma il mare mosso fece ritardare l'azione. Fra l'altro, nel suo trasferimento dall'Italia verso la in Grecia, lo Scirè mentre era in emersione fu avvistato da un ricognitore britannico. Gli italiani salutarono allegramente il pilota inglese, e gli lanciarono con il segnalatore ottico i codici luminosi concordati per quel giorno fra aerei e navi della Royal Navy, simulando di essere un battello britannico. Il servizio segreto italiano era riuscito ad intercettare la lista dei segnali convenzionali concordati dall'Ammiragliato di Londra.
La notte del 18 i tre "maiali" si avvicinarono al porto in scia ai tre caccia inglesi. Gli incursori dovevano poi dividersi, navigare in immersione fin sotto la chiglia delle navi, piazzare le cariche ad orologeria, abbandonare il maiale ed emergere lontano dal porto per provare a fuggire.
De la Penne e Bianchi furono protagonisti dell'episodio più movimentato: dopo ore di movimento, il respiratore ad ossigeno del palombaro-capo andò in avaria, il sottufficiale - intossicato - fu costretto ad emergere e arrestato dalle sentinelle. De la Penne dovette continuare il lavoro da solo. Mentre gli inglesi iniziavano a interrogare pesantemente Bianchi per capire quali fossero i piani italiani (quali navi? quante cariche?), de la Penne trascinò il maiale sul fondo del porto, scollegò la testata esplosiva da solo e la piazzò sotto la chiglia della Valiant. Riemergendo stremato, anche lui fu arrestato. Il comandante della Valiant fece interrogare duramente De La Penne che dichiarò di essere ufficiale italiano ma non rivelò il piano d'azione. Gli inglesi lo misero in una cella della nave sotto la linea di galleggiamento: sarebbe affondato con la nave se ci fosse stata un'esplosione Alle 5,30, mezz'ora prima del scoppio, de la Penne chiamò gli inglesi e chiese di poter parlare col comandante: "Signore, le suggerisco di far evacuare la nave, fra poco ci sarà un 'esplosione". Il comandante lo ringraziò, fece evacuare buona parte dell'equipaggio, ma fece riportare De La Penne e Bianchi nella cella sotto la linea di galleggiamento
Alle 6 l'esplosione sfondò la carena della Valiant e la fece adagiare sul fondo del porto: i due italiani si salvarono, e vennero evacuati dagli inglesi che li tennero prigionieri fino al termine della guerra. Anche altri due incursori vennero catturati dagli inglesi, anche se riuscirono ad affondare una petroliera e danneggiare un incrociatore. Mentre la terza coppia, quella di Antonio Marceglia e Spartaco Schergat, con il "maiale" era riuscita nella missione perfetta. I due militari affondarono la Queen Elizabeth, si sganciarono per tempo e riuscirono a fuggire dal porto. Purtroppo vennero catturati il giorno successivo, perché il Servizio informazioni militari li aveva riforniti di lire egiziane non più in corso: loro provarono a spacciarsi per marinai francesi, ma i commercianti egiziani ai quali si erano rivolti li passarono agli inglesi.
Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha ricordato il palombaro capo Bianchi (promosso poi ufficiale dopo la prigionia e la fine della guerra): "Si è spento oggi l'ultimo degli eroi dell'impresa di Alessandria d'Egitto, dove il coraggio e l'ardimento permisero di ottenere altissimi risultati", dice la Pinotti. Con lei il capo di stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano.
La Marina Militare nel dopoguerra ha venerato e rispettato gli uomini di Alessandria d'Egitto e quelli che portarono a segno un attacco simile a Gibilterra. L'ultima unità che è stata dedicata da uno di questi eroi, il caccia "Durand de la Penne", nell'agosto dell'anno scorso si è fermata nel porto dei docks di Londra per una visita degli allievi dell'Accademia navale. A bordo del "de La Penne", accanto alla plancia, gli ufficiali inglesi ospiti del comandante italiano hanno tutti guardato e letto con rispetto le fotografie e le lettere che ricordano ai giovani marinai italiani chi fosse de La Penne e cosa avevano fatto quei "magnifici 6" combattendo contro la Royal Navy nel porto di Alessandria.
Ma d'altronde dopo la fine della guerra era stato un ufficiale britannico, proprio il comandante del Valiant sir Charles Morgan, ad appuntare sulla divisa dei 6 uomini la medaglia d'oro che la Marina della Repubblica italiana assegnò a quegli incursori. Ufficiali e gentiluomini di un altro secolo
Il Salento è oramai una categoria dell'anima. Non c'è chiarezza su dove inizi mentre sulla fine non ci sono invece dubbi: il Salento termina là dove l'ultimo lembo di terra del tacco d'Italia incontra il mare, nei pressi di Santa Maria di Leuca. Ma in fondo a pochi importa definire con certezza condivisa la geografia fisica di questa terra compresa tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto, oggi così apprezzata da turisti e viaggiatori. Per tutti il Salento è quel luogo dove ulivi secolari, muretti a secco, masserie, antichi tratturi e torri costiere che vigilano su mari dei mille colori cangianti disegnano il paesaggio.
E allora anche quello spicchio di provincia di Brindisi che include i comuni di Ostuni, San Vito dei Normanni, San Michele Salentino, Carovigno, Ceglie Messapica, Villa Castelli e Fasano è Salento, per la precisione Alto Salento. Il cuore di questo territorio è la città bianca di Ostuni, ai cui piedi si estende il Parco Naturale degli Oliveti Monumentali. Un luogo magico con alberi millenari (si avete letto bene, si parla di olivi vecchi 2-3000 anni, mica semplici centenari), candidati a diventare Patrimonio Mondiale dell'Umanità, da ammirare visitando la Masseria Brancati, con il museo dell'olio, il frantoio ipogeo, il percorso tra gli uliveti e la degustazione finale di diversi oli extravergine di oliva. Di Ostuni, l'affascinante città bianca dove è piacevole passeggiare tra chiese e palazzi monumentali, si è scritto e detto molto. Ma la cittadina riserva al visitatore curioso due piccoli gioielli quasi sconosciuti: il Museo delle Civiltà Preclassiche della Murgia Medridionale e il Parco di Santa Maria d'Agnano.
Il museo, ospitato in un ex monastero in pieno centro storico, raccoglie reperti archeologici provenienti dalla zona, tra i quali la Mamma del Mondo (Ostuni 1), ovvero lo scheletro di una donna con feto di bimbo risalente ad almeno 25.000 anni fa. Il prezioso reperto è stato scoperto nelle caverne del vicino Parco di Santa Maria d'Agnano, ricco di testimonianze storiche dal Paleolitico fino al Medioevo. Una manciata di chilometri separa Ostuni da Ceglie Messapica, uno dei centri abitati più antichi della Puglia. Nel centro storico si ammirano il Castello Ducale, palazzi e chiese settecenteschi ed è d'obbligo una sosta al Caffè Centrale, dove assaggiare i famosi dolci a base di pasta di mandorle, tra i quali il celebre biscotto cegliese. Poco fuori il centro città la Masseria Camarda con il suo rilassante percorso della biodiversità, l'innovativa bio-piscina e la Sala Ferrari, dove è esposta, fra altri importanti cimeli legati alla vita del titolare Cesare Fiorio, anche la carrozzeria della Ferrari di F1 di Nigel Mansell, vincitrice del Gran premio del Brasile.
Ostuni
A San Vito dei Normanni si visita un insediamento rupestre risalente al XII secolo e la Cripta di San Biagio, che conserva al suo interno splendidi affreschi bizantini dipinti nel 1196. E si può scoprire il volto emergente della Puglia creativa ben rappresentato dal Laboratorio Urbano Exfadda nato all'interno di un ex cantina vinicola dismessa. Un elegante edificio dei primi del '900 diventato laboratorio di socialità e incubatore di impresa, che ospita oltre 30 organizzazioni attive nei settori dell'arte, della cultura, della creatività, del design, del welfare, dell'artigianato, dello sport, della ristorazione e dello sviluppo locale. Il borgo di Villa Castelli si presenta come un affascinante balcone panoramico sull'Alto Salento.
Nel Palazzo Ducale, edificato nel XVII secolo sui resti una vecchia torre del 1400, si visita il piccolo Museo Civico con interessanti reperti archeologici rinvenuti nella necropoli di Pezza Petrosa. Attraversato un ponte panoramico si scende nella gravina (una depressione carsica) lunga 400 metri e larga 200 che divide in due il paese. Da qui si può ammirare uno scorcio della pianura ionico-salentina. Anche il mare dell'Alto Salento incanta.
Torre Guaceto
Assolutamente da non perdere il tratto di Adriatico che bagna la Riserva Naturale di Torre Guaceto, tra Carovigno e Brindisi. Lasciata l'auto nell'area di sosta si può raggiungere a piedi una bella spiaggia sabbiosa o camminare lungo i sentieri che attraversano i tre ambienti naturali della Riserva: il litorale, la macchia mediterranea e la zona umida. Simbolo di Torre Guaceto è la torre aragonese del XVI secolo costruita, come altre sulla costa a distanza di alcuni chilometri, a difesa dalle incursioni dei pirati saraceni. Le attrazioni dell'Alto Salento non finiscono qui, consigli, proposte di itinerari e di visite guidate possono essere richiesti alle guide autorizzate che collaborano con il GAL-Gruppo di Azione Locale di questo angolo incantato di Puglia.
SPESSO mi vengono in mente strane associazioni di idee. Immagino che capiti a molti ed io di solito me le tengo per me, ma quelle di oggi desidero invece dirle: ho letto sui giornali che i lavori del Senato riprenderanno dopo la pausa estiva, l'8 settembre, sul tema — assai contrastato — della riforma costituzionale. Altro nessuno dice. Ebbene, sarà un caso, ma quella dell'8 settembre è una data fatidica nella storia moderna del nostro paese. Era il 1943 e il governo presieduto da Pietro Badoglio dette l'annuncio d'aver firmato l'armistizio con l'America e l'Inghilterra, aggiungendo che l'Italia si sarebbe opposta a chiunque si fosse schierato contro quella decisione. Di fatto (e di diritto) cambiavamo fronte, con un governo legittimo che controllava in quel momento soltanto i territori del Mezzogiorno dagli Abruzzi in giù; tutto il resto era nelle mani del governo di Salò presieduto da Mussolini e presidiato dall'Armata tedesca, dalle Ss naziste e dai fascisti.
In questa situazione accaddero due fatti rilevanti: l'esercito italiano si dissolse come neve al sole, lo Stato si sfasciò, la Patria con la P maiuscola si frantumò (per una trentina d'anni nessuno scrisse più la parola patria). In quegli stessi giorni cominciò la Resistenza nei territori occupati dai nazi-fascisti. Uno sfascio e una nascita. Questo doppio evento ha avuto un grande significato nella storia del nostro paese e venne annualmente celebrato al Quirinale, in Parlamento, all'Altare della Patria e alle Fosse Ardeatine. Ma anche quest'anno sarà così? Me lo auguro e per quanto riguarda il Quirinale ne sono più che sicuro.
Penso anche che ne parlerà la presidentessa della Camera (ancora chiusa) Laura Boldrini. Ma al Senato l'ordine del giorno prevede l'inizio della discussione d'un tema assai controverso che vede un solco profondo tra le varie forze politiche e all'interno del Pd. È probabile che il presidente Grasso ricordi l'8 settembre del '43 ma l'assemblea sarà comunque in tutt'altre faccende affaccendata. Non so se il regolamento parlamentare glielo consenta, ma auspico che Grasso dia la parola ai senatori che vorranno ricordare quell'avvenimento storico che è sempre estremamente attuale e poi tolga la seduta. Sarebbe un gesto estremamente apprezzabile anche se in palese contrasto con chi ha stabilito di cominciare proprio in quel giorno una querelle che dividerà profondamente gli animi anziché unificarli come il significato storico della Resistenza vorrebbe. *** Gli altri temi di grande rilievo, alcuni di carattere internazionale, altri di carattere interno, sono: la Cina e la svalutazione della sua moneta, la Grecia e le decisioni finali dell'Eurogruppo convocato ieri a Bruxelles, la prospettiva sempre più urgente della nascita di un'autorità europea con una nuova governance, ampie cessioni di sovranità nazionali in economia e in politica. Per quanto riguarda i problemi interni campeggia quello del Mezzogiorno, del fisco e dell'occupazione ai quali altri se ne sono aggiunti: quello della Rai, quello della scuola, quelli della giustizia civile. Li ricordo perché è bene che siano tenuti presente, ma ovviamente cercherò di coglierne il significato con la massima brevità.
Il caso cinese non meritava l'allarme che per dieci giorni ha sconvolto i mercati di tutto il mondo. Più volte governi e Banche centrali dell'Asia, del Giappone, dell'Occidente avevano auspicato una svalutazione dello yuan che, per decisione del governo di Pechino, era stato fissato allo stesso tasso di cambio del dollaro. Un tasso artificiale e politico. Perché? Per incoraggiare gli investitori esteri a scegliere la Cina come loro mercato di espansione. A loro volta le esportazioni cinesi continuavano ad essere incoraggiate dai bassissimi costi di produzione e la moneta cinese comprava titoli pubblici americani in una misura addirittura preoccupante: con quelle riserve, quando l'avesse voluto, la Cina poteva comprare mezza America e mezza metà del mondo (come in parte ha fatto).
Ma ora svaluta la sua moneta. Perché? Perché le esportazioni sono fortemente diminuite, molte imprese private cinesi hanno ridotto il loro lavoro e l'occupazione. Di conseguenza i consumi ristagnano. Questa è la ragione della svalutazione dello yuan, oltre al desiderio di internazionalizzare la sua moneta negli organismi mondiali. Non ci sono dunque motivi di allarme. Tutto può accadere ma non è nelle previsioni.
Della Grecia c'è poco da dire. La trattativa si è alla fine chiusa positivamente anche se la Merkel ha alzato la voce: la Germania va al voto tra due anni e Angela deve fare la faccia feroce per mantenere il consenso della sua pubblica opinione. Gli altri lo sanno, a cominciare da Draghi, e questa è la partita la cui fine positiva è evidente.
Quanto all'Europa, il caso greco è stato provvidenziale per dimostrare la necessità di fare passi avanti verso lo Stato federale. Tra i più autorevoli sostenitori di questa tesi in Italia ci sono Romano Prodi e Guido Rossi. La Boldrini lo scrive esplicitamente sui giornali e ha l'intenzione di convocare i presidenti delle Camere di tutta Europa per una posizione comune. Sarebbe importante se ci riuscisse. *** Dei tre temi che dominano la situazione italiana c'è da dire che non si stanno facendo grandi progressi. Sono entrati nell'agenda del governo è questo è già un apprezzabile risultato, ma non si è andati molto più in là. Le procedure sono lunghe, la semplificazione della pubblica amministrazione comporta anch'essa una procedura assai complessa; Aldo Moro ai tempi suoi sosteneva che fosse necessaria almeno una generazione per rifondare lo Stato, perché di questo in realtà si tratta. In tempi di avanzata tecnologia diciamo pure che ci vorranno tre anni. Il resto, le novità che annuncia il ministro Madia, sono giocattolini da mettere sotto l'albero di Natale.
Questo per quanto riguarda il Mezzogiorno. Il punto che realmente bisognerebbe portare avanti è quello di far nascere ed educare una nuova classe dirigente e politica. I partiti nel Sud sono riserve di caccia, emirati, lobby, "ascari" come Salvemini chiamava i sostenitori di Giolitti. Dopo più d'un secolo i tempi non sono affatto cambiati. La gente onesta e consapevole del Sud è sempre più tentata dall'astensione. Oppure dal votare per gli "sceriffi" e gli "sceicchi"; ma non sarà un bel risultato. Il resto, l'occupazione, il sostegno dei poveri, gli investimenti, l'andamento del reddito, sono, questi sì, obiettivi dove il governo è concretamente impegnato e gode anche del sostegno di Mario Draghi.
Qualche miglioramento c'è ma ancora impercettibile. Le cifre del Pil aumentano in maniera marginale, quelle dell'occupazione non sono ancora positive e i consumi non riescono a ripartire. Questa è la situazione. In parte dipende dal governo ma anche dall'Europa. Speriamo che consenta quella famosa flessibilità che finora però è parola ma non fatto.
Della riforma costituzionale del Senato non ho alcuna intenzione di parlare. Quello che penso l'ho già detto nelle lettere che ci siamo scambiati recentemente con Giorgio Napolitano e, per quanto mi riguarda, non ho altro da aggiungere. La partita è in mano a Renzi e ai dissenzienti del Pd. Ma una cosa è certa: il premierato, come il nostro presidente del Consiglio lo intende, non è compatibile con la democrazia parlamentare. Che ognuno si regoli come meglio crede.
C'era un uomo che ad Atene, tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C., all'ombra degli alberi del suo giardino, insegnava la filosofia ai suoi discepoli. Quest'uomo era Epicuro, la cui dottrina ha avuto una grandissima influenza sulle scuole di pensiero successive, in particolare nell'impero Romano, dove arrivò a scontrarsi con il Cristianesimo religione di Stato. La sua scuola, che perdurò per oltre settecento anni fino al IV secolo d.C. era tenuta in particolare considerazione presso i Romani, infatti i pochi scritti che ci sono rimasti dei trecento originali sono stati tramandati integralmente proprio da un Romano, Diogene Laerzio. Tra questi una lettera "A Meneceo", che tratta di etica. Per ben comprendere il contenuto dei suoi scritti bisogna ricordare la struttura della sua scuola: era presente una forte impronta di carattere religioso, per cui ad Epicuro venivano attribuiti onori quasi divini. Inoltre i seguaci della sua filosofia (chiamati "filosofi del giardino") dovevano attenersi strettamente agli insegnamenti del maestro, per cui non sono noti suoi discepoli che abbiamo applicato delle modifiche alla sua dottrina originaria. Non bisogna dimenticare poi che alle lezioni di Epicuro partecipavano anche le donne, giacchè la scuola del Giardino era aperta a tutti; era inoltre un'organizzazione basata sulla solidarietà e l'amicizia e le amicizie tra i discepoli epicurei erano famose in tutto il mondo del tempo. La lettera a Meneceo si apre con un'esortazione a praticare la filosofia, unico vero mezzo per raggiungere la felicità. Secondo Epicuro ogni età è adatta alla conoscenza della felicità, da giovani come da vecchi è importante e giusto dedicarci a conoscerla: da vecchi, vivendo una nuova giovinezza ricordando la felicità vissuta in passato, da giovani per non temere il futuro. Perché la felicità è in assoluto il bene sommo: quando la raggiungiamo non ci manca nulla, quando non la abbiamo facciamo di tutto per ottenerla. Secondo il pensatore di Samo l'uomo possiede una nozione innata di divinità che ci suggerisce che la materia divina sia eterna e felice. Afferma anche l'esistenza degli dei, ma non nel modo in cui la gente comune li vede, ovvero ignorando lo stato eterno congiunto alla felicità che è proprio delle divinità. Perciò non va contro gli dei colui che rifiuta la religione popolare, bensì chi gli attribuisce caratteristiche che sono proprie degli uomini. La prima delle quattro terapie che Epicuro suggerisce agli uomini per liberarsi da ogni irrequietudine e turbamento consiste nel non temere gli dei. Infatti, sapendo che gli dei sono perfettamente felici e ignorano chi non è loro pari, non dobbiamo preoccuparci di eventuali punizioni o pene da essi inflitte poiché gli uomini, non essendo simili agli dei, non sono considerati e le loro azioni sono libere da ogni giudizio divino. Il secondo "farmaco" consiste nel non temere la morte. Epicuro scrive a Meneceo che la morte non è nulla per gli uomini, dal momento che il piacere e il dolore sono entrambi percepibili tramite i sensi e la morte altro non è che la cessazione del sentire. Chi giungerà a questa consapevolezza sarà a maggior ragione spinto a godere ed apprezzare la condizione mortale della propria vita, privato dell'illusoria speranza di una vita futura immortale. È anche sbagliato temere la morte perché è doloroso sapere che prima o poi giungerà: infatti ciò che non causa dolore sopravvenendo è inutile che ci addolori nell'attesa. In sostanza per Epicuro la morte non significa nulla né per i vivi né per i morti: quando ci siamo noi la morte non c'è, quando c'è la morte non siamo più. E lo stesso vale per i morti, perché essi già non sono più. Solo il saggio, al contrario del volgo che fugge la morte come il peggiore dei mali, non desiderando la vita, non può temere la morte. Stolti sono per Epicuro coloro che predicano ai giovani di vivere bene e agli anziani di ben morire poiché, sia da vecchi che da giovani, una sola è l'arte del vivere bene e del ben morire. Alla stessa stregua sono considerati coloro che vorrebbero non essere mai nati. Epicuro ci invita anche a tener presente che il futuro non è del tutto nostro, ma neppure del tutto sottoposto al destino: per questo motivo non possiamo essere certi che qualcosa accadrà di sicuro ma allo stesso modo possiamo non disperare del contrario, ovvero che qualcosa sicuramente non accadrà. Per distinguere gli ultimi due elementi del tetrafarmaco Epicuro si serve delle definizioni di piacere e desiderio. Tra tutti i desideri che sono propri dell'uomo solo alcuni sono naturali, altri sono inutili; e anche tra i naturali solo alcuni sono anche necessari, come ad esempio quelli che conducono all'eliminazione della sofferenza fisica o in vista del raggiungimento della felicità. L'uomo che possiederà una corretta e piena conoscenza dei desideri sarà capace di effettuare ogni sua scelta o rifiuto in vista della salute fisica e della quiete dell'animo, essendo questo l'unico fine della vita beata. Epicuro definisce in maniera "negativa" la felicità, coincidendo essa con l'assenza di sofferenze del corpo o dello spirito, non nella semplice accumulazione di piaceri. Una volta raggiunta la felicità si dissolverà ogni tormento dell'animo, essendo stati soddisfatti tutti i desideri che hanno reso possibile il raggiungimento di tale stato. L'etica epicurea è volta in funzione della felicità, che consiste appunto con il piacere, che si identifica a sua volta con il criterio della scelta e dell'avversione. In poche parole si sceglie il piacere, si evita il dolore. Anche per quanto riguarda il piacere, Epicuro raccomanda un calcolo dei vantaggi e degli svantaggi che ci arreca la scelta di una piacere piuttosto che un male: alle volte infatti conviene non scegliere alcuni piaceri che ci recherebbero più male che bene, scegliendo piuttosto alcuni mali che, dopo una lunga sopportazione, possano recarci un piacere maggiore. In queste righe si denota una certa propensione all'utilitarismo, specialmente quando consiglia di valutare piaceri e dolori in base ai vantaggi che comportano. Epicuro elogia inoltre l'autosufficienza, intesa come capacità di accontentarsi del poco, di più facile reperibilità rispetto al molto, in modo da poter apprezzare in maniera ancor maggiore il molto quando si presenta l'occasione. Allontanandosi da una visione edonistica, Epicuro sottolinea che nella sua concezione il piacere è "nel non soffrire e nel non agitarsi", ovvero definito come atarassia (assenza di turbamento) e aponia (assenza di dolore). La felicità risiede solo in questa forma di piacere, detto piacere catastematico, che consiste nella privazione del dolore, e non nel piacere cinetico, ovvero nella gioia e nella letizia. A rendere possibile questa lucida e consapevole scelta dei piaceri in considerazioni dei vantaggi è la saggezza, considerata superiore persino alla filosofia madre di tutte le virtù. Senza la saggezza non sarebbe possibile godere di un'esistenza felice. Il saggio sa che la concezione del fato padrone di tutto è quanto mai sbagliata poiché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La fortuna può dare avvio a grandi beni o grandi mali per gli uomini ma non lo fa, come credenza popolare, come una divinità, che fornisce beni o mali agli uomini in modo da determinare la loro felicità. Per Epicuro è meglio essere saggi ma senza fortuna che fortunati e stolti ed è preferibile che un progetto ben ragionato fallisca piuttosto che uno dissennato vada in porto. La lettera si conclude con un'esortazione che Epicuro fa a Meneceo, ovvero di meditare sempre di queste cose con sé stesso e con i suoi simili, in modo da non essere mai in preda all'ansia e poter vivere come un dio tra gli uomini.
Stabilimenti che lasciano spazio a enormi distese di spiaggia libera, ottimo cibo, piscine termali scavate nella roccia e parchi naturali nelle montagne del Pollino e della Sila. In più, un tocco di preistoria, sconosciuta ai più, in predicato di Lista Unesco. Tesori che aspettano solo di essere visitati
di ALESSANDRA BORELLAAspromonte. Etimologia della parola e morfologia del territorio si sposano alla perfezione. Sdraiati nella spiaggia di Scilla, di fronte alle acque cristalline del mito greco, ci sono le montagne che incombono alle spalle. Aspre, tanto quanto è dolce la distesa di sabbia. Che poi non è sabbia: solo da vicino ci si accorge dei minuscoli sassolini. Troppo piccoli per dare fastidio. La Calabria è terra di contrasti e di tesori nascosti nel suo entroterra, da scoprire. Conquistarli non è affare da poco: tra noi e loro ci sono spesso ore di curve a gomito, paesini deserti, nessuna traccia di vita. Ora che il viadotto Italia è stato riaperto anche il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, invita gli italiani ad andare in vacanza in Calabria. A Scilla, baia e cittadina incastonata 400 metri più in su, i trasporti funzionano già a meraviglia: un folcloristico trenino variopinto, sono colorati i vagoni ed è 'colorato' il carattere dell'autista, ti fa scendere e risalire con un euro. Con ricevuta, naturalmente. Le fermate? Basta alzare la mano. Gli orari? Parte quando è pieno.
La Venezia del sud. Inizia da questa punta di mar Tirreno un viaggio in uno dei luoghi meno frequentati dagli italiani vacanzieri, se escludiamo Tropea che, a parte la cipolla e la movida notturna, non eccelle più di tanto rispetto a tutte le spiagge disseminate negli oltre 800 chilometri di costa calabrese. La cosiddetta 'costa viola', come la descrisse Platone, a un passo dalle isole Eolie, con un ecosistema marino simile a quello tropicale, coralli compresi. Scilla è la ninfa trasformata in mostro dal sortilegio della maga Circe, invidiosa dell'amore di Glauco. Così narra Ovidio: Scilla e Cariddi, le due creature marine che sono nascoste proprio qui, tra le pieghe delle onde di queste acque, nello stretto di Messina. La Sicilia che si vede da qui è la punta più a est, stretta tra Mortelle e Ganzirri. Uno scorcio della costa calabrese protagonista di un altro mito, quello della Fata Morgana, un'illusione ottica che fa comparire la striscia di terra che abbiamo davanti a una distanza ravvicinata, sospesa nell'aria, sopra l'orizzonte. La spiaggia di Scilla non è affollata come quella di Tropea e, soprattutto, è altrettanto bella e molto più economica. Meno di dieci euro per un ombrellone e due lettini. A cena ci sono i suggestivi ristoranti sul mare in quella che viene chiamata "la Venezia del sud": Chianalea di Scilla, il villaggio dei pescatori. Viottoli incastonati nella roccia, con localini e negozietti. Ottimo pesce a prezzi ragionevoli. Seduti letteralmente sopra l'acqua, la vista è unica e, quella sì, non ha prezzo.
Menu tipico. Risalendo la costa si vede il castello ducale Ruffo, sopra i lidi con vastissime distese di sabbia: Bagnara, culla delle due voci sorelle più amate d'Italia, Mia Martini, a cui è dedicato un monumento sul lungomare, e Loredana Berté, e Pizzo Calabro, patria del tartufo. Capo Vaticano invece ha meravigliose baie da apprezzare in barca, ma anche, perché no, dall'alto, sul belvedere. I fondali, come in tutta la Calabria, non sono a prova di bambino, un paio di metri e non si tocca più, ma l'acqua è così trasparente che regalano comunque immagini bellissime: rocce e pesci colorati si distinguono in modo nitido anche a occhio nudo senza fare snorkeling. Occhio a riva, dunque, e alle proprie spalle, dove ci sono sempre le montagne a 'guardarci'. Se gli hotel sono pieni, c'è sempre una stanza su Airbnb anche last minute. Ci sono bed&breakfast immersi nel verde che dominano Tropea dall'alto, a Santa Domenica, ad esempio, dove bouganville e campanule tingono di viola la costa e l'entroterra. A Brattirò è nascosto "L'Uliveto", un ristorante tipico già dal menu, nel quale l'asterisco non significa prodotto surgelato, ma la specialità della casa. Pochi euro per una cena 'casalinga' e cordiale, sempre che non facciate arrabbiare lo chef con i fuori menu e le ordinazioni strane, "il tutto dipende dal suo umore", dice il vademecum sul menu, "ed è quasi sempre arrabbiato". Una cena dopo la quale l'amaro (del capo, ovviamente) è sempre offerto, anche se "a malincuore".
Inerpicarsi per vedere un paradiso. Risalendo la costa tirrenica verso nord si attraversano paesini come Falerna e Cirella, baie larghissime alla Rio de Janeiro, e di gusto brasiliano, e oceanico, è anche il kitesurf. Si arriva a Praia a Mare, località turistica conosciuta che si trova poco prima di Maratea. Di fronte c'è l'isola di Dino con le sue grotte azzurre. Meno conosciute, poco più in là, visibili in barca o arrampicandosi in un sentiero sopra le rocce, sono tre grotte nascoste agli occhi di chi si accontenta del lido, comodo, tranquillo, economico e raggiungibile con la macchina fino a un metro dalla spiaggia, con parcheggi gratuiti e liberi ovunque, oppure custoditi a pochi euro. Sono le grotte dell'Arcomagno, un paradiso. L'acqua, di solito a temperature alte, è la più fredda di Calabria perché c'è un torrente che scorre fino al mare e la rinfresca. Una baia da Laguna blu, o The Beach, il film girato da Leonardo di Caprio in Thailandia (nella foto in apertura). Il sole quando scende si infila nell'arco creato dai due costoni che chiudono la spiaggetta e si inabissa nell'acqua in un tramonto unico.
Tramonto nella grotta dell'Arcomagno
Calabria coast to coast: attraversando la regione da costa a costa, si passa in mezzo al Parco Nazionale del Pollino, famoso per i suoi fiumi sui quali vengono organizzate gite di rafting. Non ci sono solo i bronzi di Riace a Reggio Calabria. C'è anche la grotta del Romito, a Papasidero, proprio nel Pollino. C'è un tesoro archeologico che potrebbe presto entrare a far parte del patrimonio dell'Unesco. L'avete sempre avuto sotto agli occhi, ma non sapevate dov'è. Si tratta del toro preistorico stampato in tutti i sussidiari di scuola, quando si studia l'era geologica paleolitica. Il nome tecnico è "boss primigenius" ma è conosciuto anche come "uro": è il graffito del paleolitico superiore al terzo posto per importanza storica in Europa, dopo il toro di Altamira in Spagna e il cavallo di Lascaux. Ln Francia. Risale a un periodo che va dai 19mila anni ai 10mila anni fa ed è stato scolpito su roccia dolomitica calcarea con un bulino, attrezzo preistorico ricavato dalla selce. Prende il nome da "eremita" perché in periodo medievale la grotta era un rifugio di 'penitenza' per i monaci del vicino monastero di Sant'Elia.
Scoperto nel 1961, quando il proprietario di questa porzione di terra lo ha trovato, è stato oggetto di studi per decenni perché in questo sito gli scavi, del professore Paolo Graziani prima e di Fabrizio Martini poi, hanno portato alla luce anche i resti di alcuni esemplari di 'homo sapiens', le cui ossa sono conservate nella casa museo e che testimoniano la prima traccia di insediamenti umani nella zona. Ci sono due coppie: una di marito e moglie, sepolti vicini, con le teste appoggiate l'una sull'altra, e due donne con una relazione di parentela stretta, evinta dal dna originario estratto dai molari. Nell'ultimo scavo, pochi anni fa, è stato rinvenuto anche lo scheletro di un bambino di 11 anni. La tomba indica una sepoltura speciale: il corpo era avvolto da un manto di pelle, sul quale erano cucite oltre mille conchiglie, di provenienza del Mar Rosso. Questo ha portato gli storici a ipotizzare un flusso migratorio di questi uomini preistorici che si insediarono qui venendo dall'Africa. Migliaia di anni prima del flusso odierno.
L'ingresso della grotta del Romito
Torre di Babele. Terra di emigranti e immigrati: era così nel paleolitico ed è così oggi. A San Nicola dell'Alto ci sono eritrei e nigeriani: dormono in una scuola elementare. Accolti, certo con difficoltà, da questa piccola comunità di origini albanesi che popola il paesino insieme a quelli adiacenti in provincia di Crotone: Pallagorio e Carfizzi, che ha dato i natali allo scrittore premio Campiello Carmine Abate. L'integrazione di queste persone che arrivano qui deve passare anche per un doppio scoglio linguistico: in queste terre si parla una lingua antica, l''arbereshe'. E d'estate, quando tornano gli emigrati e la popolazione decuplica, all'arbreshe si affiancano il tedesco, il francese, diversi dialetti calabresi. L'italiano, quasi non si sente. Sul versante cosentino c'è San Giorgio Albanese, un altro paesino arbereshe che conserva gelosamente le sue tradizioni di origine greco-bizantina, radicate anche nell'arte architettonica della chiesa di San Giorgio, nella piazza del paese. Da San Giorgio, salendo a mille metri e addentrandosi nel bosco ai piedi della Sila, verso Acri, si trova Rosalbino, ristorante che domina la piana di Sibari. La pizza margherita è ancora a 3 euro. I fusilli, pasta tipica calabrese fatta in casa, a poco più.
Chi vive in Calabria, chi arriva agli Ottanta. Rino Gaetano non li ha messi così lontani tra loro questi due versi di una delle sue canzoni più celebri. La longevità in questi paeselli sulle colline calabresi è di casa. Una nonna qualunque da queste parti, anche se ultraottantenne, cucina, lava i piatti e fa 'le faccende', guai a interferire. Quello sguardo volitivo da donna del sud non ammette repliche. Sarà l'aria incontaminata di queste strade che vedono automobilisti con la frequenza con cui vedono la pioggia, oppure è semplicemente la tempra di chi ha vissuto in campagna. Tornando al mare, si scende sulla costa ionica e a a sud-est, poco prima di Cirò Marina, Punta Alice val bene una sosta sulla statale 106. Spiaggia deserta e silenziosa. Per la costa più meridionale, invece, da Melito di Porto Salvo a Soverato alla più nota Isola Capo Rizzuto, serve un altro viaggio. Per risalire verso la Salerno Reggio Calabria, si può percorrere la 107 Crotone-Cosenza che attraversa la Sila e ti catapulta in pochi minuti nel più tipico e suggestivo paesaggio montano. Molto simile a quello del Pollino, al confine con la Basilicata. Proprio nel Pollino, vicino a Cerchiara di Calabria, ci sono altri due posti 'segreti' che vale la pena visitare: le gole del Raganello e la grotta delle Ninfe. Le prime sono pareti di un canyon lungo 17 chilometri fatto di costoni rocciosi che si aprono e si richiudono lasciando spiragli da attraversare, seguendo i torrenti dentro la riserva naturale. La seconda è una piscina termale scavata nella roccia. L'odore di zolfo non si sciacqua via facilmente come il fango di argilla, da spalmare sulla pelle.
Triglia in panino fritto, erbette selvatiche, fiori eduli e salsa all'arancio
Stelle nel cielo e nel piatto. Una stella speciale, da gustare anche con la vista, è quella che la prestigiosa guida Michelin ha dato all'azienda agrituristica Dattilo di Roberto Ceraudo, vicino a Strongoli, ma soprattutto alla chef del ristorante: la figlia Caterina, allieva di Niko Romito, lo chef abruzzese del ristorante Casadonna reale a Castel di Sangro (L'Aquila), uno degli otto italiani con tre stelle Michelin. Caterina mette insieme la tradizione culinaria calabrese con le sperimentazioni della nouvelle cousine, in un menu adatto a palati più esigenti. Nel piatto una triglia, un polpo, una spigola, sembrano solo una triglia, un polpo, una spigola. Eppure hanno un sapore mai provato. Un ingrediente apparentemente semplice, incorniciato solo da salse e decorazioni floreali, ti sorprende all'assaggio. Un'altra sorpresa è la degustazione di vini locali, dal bianco al rosato al rosso al passito. Il boss arriva al tavolo e parla arebreshe. Oggi il posto è conosciuto, al punto che è stato scelto da Pupi Avati come set per le riprese del suo ultimo film per la tv prodotto da Rai Fiction. Ma non è sempre stato così. Roberto Ceraudo ci spiega come ha comprato il terreno quarant'anni fa, con un prestito in banca. "Era un affare per la banca, con l'ipoteca che mi avevano messo". Tre cose ha "lasciato" nella vita, di cui va fiero (a parte i tre figli, tutti impegnati nell'agriturismo): "Il fumo, la caccia, la moglie", dice sorridendo. Non si sa quale delle tre sia stata più benefica, ma il risultato del suo lavoro e dell'amore per la sua terra, coltivata con passione e dedizione, è sotto i nostri occhi. "Da zappatore quale ero, certo non mi sarei mai immaginato di arrivare qui". Non immaginava nemmeno di parlare con una giornalista.
Pubblico qui un articolo di Goffredo Parise tratto dalla rubrica che lo scrittore tenne sul "Corriere della sera" dal 1974 al '75 (ora nella bella antologia a cura di S. Perrella, Dobbiamo disobbedire, Adelphi 2013). L'articolo, che apparve il 30 giugno 1974, è un piccolo gioiello di stile e di pensiero di questo autore sovranamente libero e alieno da tutte le chiese e i salotti dell'apartheid politico italiano, e rappresenta oggi forse più che allora una staffilata alla nostra inerzia materiale e morale. Non mi sembra inoltre privo di qualche collegamento con le riflessioni sulla povertà che Alessandro Bellan ha recentemente condotto su questo blog.
«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest'altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che sono "un comunista", per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di "consumare".
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c'è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall'altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d'accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di "classe". Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra "ideologia" nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell'acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.
Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è "comunismo", come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l'automobile, le motociclette, le famose e cretinissime "barche".
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l'olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l'uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l'illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un'enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli "etichettati" che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani "comprano" ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l'hanno voluta disprezzare nell'euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro "qualità", la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c'è di tutto, vedi l'estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l'élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all'opposizione. L'obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più "corretta", come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell'Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l'enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».
Dan Buettner and I were off to a good start. He approved of coffee.
"It's one of the biggest sources of antioxidants in the American diet," he said with chipper confidence, folding up his black Brompton bike.
As we walked through Greenwich Village, looking for a decent shot of joe to fuel an afternoon of shopping and cooking and talking about the enigma of longevity, he pointed out that the men and women of Icaria, a Greek island in the middle of the Aegean Sea, regularly slurp down two or three muddy cups a day.
This came as delightful news to me. Icaria has a key role in Mr. Buettner's latest book, "The Blue Zones Solution," which takes a deep dive into five places around the world where people have a beguiling habit of forgetting to die. In Icaria they stand a decent chance of living to see 100. Without coffee, I don't see much point in making it to 50.
The purpose of our rendezvous was to see whether the insights of a longevity specialist like Mr. Buettner could be applied to the life of a food-obsessed writer in New York, a man whose occupational hazards happen to include chicken wings, cheeseburgers, martinis and marathon tasting menus.
Covering the world of gastronomy and mixology during the era of David Chang (career-defining dish: those Momofuku pork-belly buns) and April Bloomfield (career-defining dish: the lamb burger at the Breslin Bar and Dining Room) does not exactly feel like an enterprise that's adding extra years to my life — or to my liver.
And the recent deaths (even if accidental) of men in my exact demographic — the food writer Joshua Ozersky, the tech entrepreneur Dave Goldberg — had put me in a mortality-anxious frame of mind.
With my own half-century mark eerily visible on the horizon, could Mr. Buettner, who has spent the last 10 years unlocking the mysteries of longevity, offer me a midcourse correction?
To that end, he had decided to cook me something of a longevity feast. Visiting from his home in Minnesota and camped out at the townhouse of his friends Andrew Solomon and John Habich in the Village, this trim, tanned, 55-year-old guru of the golden years was geared up to show me that living a long time was not about subsisting on a thin gruel of, well, gruel.
After that blast of coffee, which I dutifully diluted with soy milk (as instructed) at O Cafe on Avenue of the Americas, Mr. Buettner and I set forth on our quest at the aptly named LifeThyme market, where signs in the window trumpeted the wonders of wheatgrass. He reassured me, again, by letting me know that penitent hedge clippings had no place in our Blue Zones repast.
"People think, 'If I eat more of this, then it's O.K. to eat more burgers or candy,' " he said. Instead, as he ambled through the market dropping herbs and vegetables into his basket, he insisted that our life-extending banquet would hinge on normal affordable items that almost anyone can pick up at the grocery store. He grabbed fennel and broccoli, celery and carrots, tofu and coconut milk, a bag of frozen berries and a can of chickpeas and a jar of local honey.
The five communities spotlighted in "The Blue Zones Solution" (published by National Geographic) depend on simple methods of cooking that have evolved over centuries, and Mr. Buettner has developed a matter-of-fact disregard for gastro-trends of all stripes. At LifeThyme, he passed by refrigerated shelves full of vogue-ish juices in hues of green, orange and purple. He shook his head and said, "Bad!"
"The glycemic index on that is as bad as Coke," he went on, snatching a bottle of carrot juice to scan the label. "For eight ounces, there's 14 grams of sugar. People get suckered into thinking, 'Oh, I'm drinking this juice.' Skip the juicing. Eat the fruit. Or eat the vegetable." (How about a protein shake? "No," he said.)
So far, I was feeling pretty good about my chances of making it to 100. I love coffee, I'm not much of a juicer and I've never had a protein shake in my life. Bingo. I figured that pretty soon Mr. Buettner would throw me a dietary curveball (I noticed with vague concern that he was not putting any meat or cheese into his basket), but by this point I was already thinking about how fun it would be to meet my great-grandchildren.
I felt even better when he and I started talking about strenuous exercise, which for me falls somewhere between "root canal" and "Justin Bieber concert" on the personal aversion scale.
I like to go for long walks, and … well, that's about it.
"That's when I knew you'd be O.K.," Mr. Buettner told me.
It turns out that walking is a popular mode of transport in the Blue Zones, too — particularly on the sun-splattered slopes of Sardinia, Italy, where many of those who make it to 100 are shepherds who devote the bulk of each day to wandering the hills and treating themselves to sips of red wine.
"A glass of wine is better than a glass of water with a Mediterranean meal," Mr. Buettner told me.
Red wine and long walks? If that's all it takes, people, you're looking at Methuselah.
O.K., yes, Mr. Buettner moves his muscles a lot more than I do. He likes to go everywhere on that fold-up bike, which he hauls along with him on trips, and sometimes he does yoga and goes in-line skating. But he generally believes that the high-impact exercise mania as practiced in the major cities of the United States winds up doing as much harm as good.
"You can't be pounding your joints with marathons and pumping iron," he said. "You'll never see me doing CrossFit."
For that evening's meal, Mr. Buettner planned to cook dishes that would make reference to the quintet of places that he focuses on in "The Blue Zones Solution": along with Icaria and Sardinia, they are Okinawa, Japan; the Nicoya Peninsula in Costa Rica; and Loma Linda, Calif., where Seventh-day Adventists have a tendency to outlive their fellow Americans, thanks to a mostly vegetarian diet that is heavy on nuts, beans, oatmeal, 100 percent whole-grain bread and avocados.
We walked from the market to the townhouse. And it was here, as Mr. Buettner laid out his cooking ingredients on a table in Mr. Solomon's and Mr. Habich's commodious, state-of-the-art kitchen, that I noticed the first real disconnect between the lives of the Blue Zones sages and the life of a food writer who has enjoyed many a lunch hour scarfing down charcuterie, tapas and pork-belly-topped ramen at the Gotham West Market food court.
Where was the butter? Hadn't some nice scientists determined that butter's not so lethal for us, after all? ("My view is that butter, lard and other animal fats are a bit like radiation: a dollop a couple of times a week probably isn't going to hurt you, but we don't know the safe level," Mr. Buettner later wrote in an email. "At any rate, I can send along a paper that largely refutes the whole 'Butter is Back' craze." No, thanks, I'm good.)
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Where was the meat? Where was the cheese? (No cheese? And here I thought we'd be friends for another 50 years, Mr. Buettner.)
"If you're eating this meal, you're getting all the protein you need," he promised me, although it wasn't my protein intake I was worried about.
Although it is by no means a stealth vegan manifesto, "The Blue Zones Solution" frequently mentions that men and women in these longevity-friendly regions tend to eat meat and fish only sparingly, and they almost never tangle with cow's milk. Mr. Buettner had leapt to the conclusion that I had probably had enough meat and cheese for the week already. He was correct.
"We're making up for all your sins tonight," he told me. "What you learn tonight is going to set you on a new path."
The centerpiece of Mr. Buettner's dinner was a dish he had named "Icarian stew," which involved a big pot of black-eyed peas, fennel, onions, garlic, carrots, canned tomatoes and other plant-based delights simmered for hours and then topped with a few glugs of extra-virgin olive oil.
"I eat this all the time," he said. "This is how I seduced Kathy Freston, by the way. You ask her. Ask her if Icarian stew has any role in her love for me." (Mr. Buettner is dating Ms. Freston, the author and advocate of veganism who used to be married to Tom Freston, the former MTV executive.)
Raised in Minnesota, Mr. Buettner (pronounced BYOOT-ner) grew up eating "hotdish and Hamburger Helper — the usual Midwest crap," he said.
But in 2005 he wrote an article about the secrets of longevity for National Geographic, and the lightning-striking success of it bestowed upon him both a career mission (starting with his first book, "The Blue Zones: 9 Lessons for Living Longer From the People Who've Lived the Longest," in 2008) and a new mode of looking at food.
He's now a fierce believer in Japanese yams, wild greens and milk thistle. (Throughout "The Blue Zones Solution," he stresses that people in these parts of the world don't just happen to live a long time, they do so with lower rates of the diabetes, heart disease and dementia that seem to afflict much of the junk-food-gobbling globe.)
Not long ago he dropped by the Mayo Clinic to meet a doctor for an executive physical. "I wanted to see if it really paid off," Mr. Buettner said. "And apparently it has. I had the clearest arteries he'd ever seen in a 54-year-old man."
Nevertheless, his findings over the last decade do put him at odds with a controversial range of culinary belief systems.
During our afternoon and evening together, he joked that the paleo diet is fine if all you want is the life expectancy of a cave man. The raw food movement? Mr. Buettner brushed it aside and pointed out that in all of the Blue Zones, people cook their meals, sometimes for hours.
Fear of a wheat planet? "Bogus," he said. After a couple of hours in the kitchen, Mr. Buettner defied the carb-avoiders and gluten-dodgers of America by dashing over to Union Square on foot to score several loaves of long-fermented, freshly baked sourdough at Breads Bakery.
"A true sourdough bread will actually lower the glycemic load of a meal," he said. "But it has to be a real sourdough bread." (Whew. We were back to the good news.)
After a bunch of his friends had gathered in the kitchen (Mr. Buettner referred to them as his New York "moai," which is an Okinawan term for a circle of people who purposefully meet up and look out for one another), he opened a bottle of hard-to-find Sardinian wine and asked them to take their seats. Among them were Mr. Solomon, the author of books like "Far From the Tree" and "The Noonday Demon," and Samantha Boardman, a psychiatrist and the wife of the real-estate tycoon Aby J. Rosen.
There came a broccoli soup thickened with cashew cream; a simple Japanese paste made from mixing sweet potato and coconut milk; a honey-touched tofu parfait crowned with a berry compote, which Mr. Buettner called "a little naughty" because it was sweeter than what you would normally find in a sugar-averse Blue Zone. (Naughty? I guess Mr. Buettner has never had the gochujang Buffalo wings at Seoul Chicken.)
Mr. Solomon, although enthusiastic about the longevity feast, appeared to be reading my mind. "No cheese in Sardinia?" he asked, a trace of longing in his voice.
The meal itself was delicious and nourishing, even if there were moments when my restaurant-conditioned palate was crying out for salt. In a sense, though, the meal was almost beside the point, blurring as it went on into waves of wine and conviviality.
Along the way, Mr. Buettner stage-whispered into Mr. Solomon's ear, asking whether our host might be willing to dip into the wine cellar for a special bottle or two. Icaria is known for the longevity of its residents; it's also known for Dionysian all-night parties. I can't say for sure whether I felt longevity coursing through my veins, but there was a fair amount of alcohol.
"The secret sauce is the right mix of friends," Mr. Buettner said.
And as each course arrived (the Icarian stew claiming its rich, flavor-deep place as an obvious showstopper), Mr. Buettner called attention to a last point about the Blue Zones: that in longevity idylls like Icaria, it's not just about what you eat, but how you eat, and how much you and your friends enjoy a meal together.
"Dan, do any of the Blue Zones people eat kale salad?" Mr. Solomon asked.
"No," Mr. Buettner replied. "They eat food that they enjoy."