http://www.repubblica.it/economia/rubriche/il-commento/2014/04/19/news/pareggio_di_bilancio_siamo_gi_in_attivo-83996017/?ref=HRER3-1
Altro che chiedere un rinvio per l'obiettivo del pareggio di bilancio, come ha appena fatto l'Italia: siamo già in attivo, e neanche di poco, un punto di Pil. Ma non è che qualcuno sbagli i conti. E' che dietro una questione che sembrerebbe puramente tecnica si cela, come avviene quasi sempre, un problema squisitamente politico. La cosa è complessa, cerchiamo di spiegarla.
Il pareggio di bilancio che siamo tenuti a raggiungere è quello "strutturale": significa che alle entrate e uscite effettive si applica una correzione per tener conto di quanto abbia influito la situazione economica contingente, e si considera come sarebbe andata se l'economia non fosse stata sotto stress per la crisi, cioè in situazione "normale". Già qui si capisce che siamo in mezzo a concetti del tutto discrezionali: quale sarebbe la "normalità" dell'economia? La definizione non può che essere convenzionale. Ma andiamo avanti.
Il Pil "strutturale" si calcola in base a una procedura fatta di ipotesi macroeconomiche e di formule matematiche. La matematica conferisce sempre un'aura di oggettività, che però è del tutto falsa: la formula non è altro che la trasposizione di una teoria, e le teorie, questo lo sanno tutti, possono sempre essere contraddette. Il metodo di calcolo utilizzato dalla Commissione Ue, nello specifico, è basato sulla teoria economica neoclassica, quella a cui si riferiscono tutti coloro che appartengono all'area politico-culturale comunemente nota come "liberista". La stessa teoria su cui è basato tutto l'impianto della costruzione europea, pensata nel periodo di massimo successo di quelle idee.
Accade però a volte che l'applicazione delle formule generi effetti che qualunque persona non accecata dall'ideologia definirebbe insensati. E questo è per l'appunto ciò che è accaduto - sta accadendo - con la procedura di calcolo del Pil strutturale. Uno degli elementi di questo calcolo è il "tasso di disoccupazione strutturale", con cui si indica quel tasso di disoccupazione al di sotto del quale si generano tensioni sui salari e sull'inflazione. Attenzione, anche con quest'ultima proposizione siamo nel campo dell'applicazione di una teoria economica, non di una legge della fisica o della chimica. Fatto sta che dalla formula della Commissione salta fuori che il tasso di disoccupazione strutturale dell'Italia è del 10,4% nel 2013 e del 10,8 nel 2014. Se ne sono accorti Stefano Fantacone, Petya Garalova e Carlo Milani del Cer, che, rilevando giustamente che si tratta di un dato assurdo, hanno rifatto il calcolo cambiando quel dato e rilevando che basterebbe portarlo all'8,6% per ottenere che l'Italia il pareggio strutturale l'ha raggiunto già nel 2013 (anzi, risulterebbe un piccolo surplus dello 0,1% del Pil).
Repubblica ha chiesto al Cer di calcolare che risultato si otterrebbe se la disoccupazione strutturale fosse portata invece al 6,5%, e il risultato è clamoroso: senza cambiare nient'altro nel metodo di calcolo i nostri conti pubblici - sempre sotto il profilo strutturale - risulterebbero in attivo - per il 2014 - dell'1% di Pil: si tratta di circa 16 miliardi. Dunque non solo non saremmo tenuti a ulteriori tagli, ma avremmo una cifra non indifferente da spendere per sostenere l'economia.
Perché il 6,5%? Cominciamo col dire che non si tratta di un obiettivo utopistico, né massimalista. Una disoccupazione a quel livello è ancora relativamente elevata, ben lontana dalla situazione di piena occupazione che dovrebbe essere l'obiettivo di ogni politica economica. Una volta lo era, anzi: l'obiettivo della piena occupazione era la ragion d'essere della "scienza" economica. Ma poi le cose sono cambiate e ha prevalso la convinzione che bisognasse occuparsi dell'efficienza dell'economia, e l'occupazione ne sarebbe stata la conseguenza, E questo è ancora il pensiero dominante, nonostante le smentite della realtà.
Comunque, il 6,5% è per esempio l'obiettivo indicato dall'ex presidente della Federal Reserve Usa, Ben Bernanke, come prioritario per le decisioni di politica monetaria, anche a costo di un rialzo dell'inflazione nel breve periodo (cosa che comunque non si è verificata), e confermato dall'attuale presidente, Janet Yellen. Ma è anche il tasso che aveva raggiunto l'Italia nel 2008, prima dello scoppio della crisi (anzi, era anche qualcosa in meno), senza che si producesse nessuna tensione, né sui salari, né sull'inflazione. Un obiettivo realistico, dunque, sul quale nessuno dovrebbe avere qualcosa da obiettare.
Ma allora le procedure di calcolo della Commissione Ue, che producono un risultato così abnorme, sono sbagliate? Non le procedure in sé: è sbagliata la logica che le guida ed è sbagliato l'obiettivo politico assunto come prioritario, cioè un astratto pareggio del bilancio. E' appunto quello che si diceva all'inizio: il problema, prima ancora che tecnico, è politico.
L'Italia però quelle procedure le ha accettate. Potrebbe, adesso, contestarle? Sì che potrebbe. Le metodologie non sono cristallizzate nei trattati, e di fronte a risultati palesemente assurdi e politicamente inaccettabili avremmo tutto il diritto di chiedere che siano immediatamente riviste. Certo, non dovremmo dare l'impressione di voler fare i Berlusconi di turno, che appena si allenta la pressione della crisi ricominciano a fare spese in libertà e abbandonano le riforme necessarie (che non è detto che coincidano con quelle attualmente in discussione). Abbiamo però un appiglio concreto per affermare che oggi le regole europee sono sbagliate e ci spingono in un circolo vizioso che soffoca le possibilità di ripresa e dunque rende anche impossibile rispettare gli impegni sul debito, e non fa altro che impoverire sempre più la nostra economia. Avremo il coraggio e la capacità di seguire questa strada?
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