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Il grecista Lapini: «In Italia l’industria del voto fasullo, senza i classici si torna al Medioevo» - Corriere.it

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    Corriere della Sera
    SCUOLA E UNIVERSITA'

Il grecista Lapini: «In Italia l'industria del voto fasullo, senza i classici si torna al Medioevo»
l'intervista
17 giugno 2019 - 22:19
Il grecista Lapini: «In Italia l'industria del voto fasullo, senza i classici si torna al Medioevo»
Il professor Walter Lapini: «Greco e latino? Sono investimenti sulla persona»
di Iacopo Gori

Professor Lapini, è vero che nessuno oggi conosce più il greco e il latino come trent'anni fa?
«È vero. Ma le cose non andavano bene neanche prima. La sofferenza cominciò nel '68 con la guerra al liceo classico in quanto scuola dei figli di papà; poi l'eliminazione del latino alle medie; poi la scuola di massa, con la perdita di centralità antropologica del bravo a favore del mediocre; e poi Luigi Berlinguer, l'autonomia, la concorrenza al ribasso. Una serie di disastri di cui gli studi umanistici, ventre molle della scuola, sono stati la prima vittima».

Perché ventre molle?
«Le discipline umanistiche non producono beni tangibili, non danno nulla nell'immediato, non interessano alle multinazionali. Sono investimenti sulla persona, e a lunga scadenza».

Walter Lapini, professore ordinario di letteratura greca all'università di Genova, oltre 300 pubblicazioni, uno dei migliori grecisti italiani, ha le idee molto chiare.

Com'è cambiato il modo di insegnare il greco e il latino?
«Le famiglie vorrebbero il figlio imparato, ma a costo zero. Niente ostacoli, lacrime, bocciature, crisi, vacanze decurtate. Dinanzi a ragazzi sempre più sprovveduti, spesso con alle spalle delle pessime scuole medie, si tentano vie alternative, ad esempio insegnare le lingue antiche come si insegna l'inglese. Io non credo all'efficacia di questi metodi, ma sono pur sempre dei metodi. Quello che non si può ammettere è l'industria del voto fasullo, spesso organizzata dai presidi che ricevono dall'alto l'ordine di promuovere e lo trasmettono in basso. Un tempo i professori si ribellavano, ora fanno a gara per adeguarsi per primi».

C'è chi sostiene che le lingue morte vadano abbandonate perché ci sono le traduzioni. «Intanto sfatiamo il mito che se si legge in traduzione Tolstoj si può leggere in traduzione anche l'Eneide. Fra noi e i Russi dell''800, o i Francesi del '700, c'è una continuità. Fra noi e gli antichi no. L'Eneide in italiano è brutta. Lo studio dell'antico senza le lingue antiche è un assurdo».

Pretendere che tutti studino a tal punto di essere in grado di leggere in latino non è una cosa da poco però.
«Sapere il latino ti fa "vedere" al di là dell'italiano, crea un contatto diretto con il testo. E leggere l'Eneide in italiano riacquista un senso. Altrimenti non fa che approfondire l'estraneità».

Il mondo cambia, è sbagliato inserire materie nuove?
«Non è sbagliato. Dipende dall'idea di scuola che si ha. O tante materie fatte male o poche materie "universali". Le esigenze, le tendenze, mutano di continuo: bisogna dare una formazione che sia funzionale a tutto, dunque astratta, non professionalizzante».

Al tempo dei traduttori online, cosa si rischia a non saper tradurre?
«Pensate a un archeologo greco che non sa il greco. O a un docente di filosofia antica che non sa le lingue antiche. C'è un traduttore dell'Etica Nicomachea di Aristotele che prende un granchio dopo l'altro, ad esempio confonde un verbo che vuol dire "costringere" con un verbo che vuol dire "oziare". Dài dài si tornerà ai tempi di Guglielmo di Moerbeke, un fiammingo contemporaneo di Dante, che traduceva Aristotele in latino prendendo topiche colossali. E poi il mondo antico mica finisce con l'antichità. I filosofi moderni hanno scritto in latino per tutto il '600 e oltre. Chi studia Spinoza deve sapere il latino. Non sapendo tradurre rischiamo di perdere un'altra volta i classici e di tornare al Medioevo».

A che cosa serve studiare oggi le lingue morte?
«L'antichista John Ira Bennett, in un prezioso articolo del 1908, rispondeva a questa domanda con una controdomanda. Perché studiare il greco? E allora perché pettinarsi? Perché usare il coltello e la forchetta? Un tempo non c'erano. E perché la musica, perché la pittura? Tutte cose che non producono, tutte cose inutili. Ma le lingue morte hanno anche un'utilità diretta; creano meccanismi di ragionamento, meccanismi performanti; forniscono strumenti, technicalities, spendibili ovunque, nel pensiero, nella scienza. Piaccia o no, i migliori scienziati vengono da studi umanistici. All'estero hanno soppresso questi studi e non ci hanno guadagnato: hanno delle eccellenze ma tutto intorno il deserto. La nostra scuola è l'unica che possieda il liceo classico. Ed esporta cervelli ovunque. Un caso?»

Siamo diventati un brand da esportare nel mondo? La moda italiana come gli antichisti italiani?
«Precisamente! Siamo un Paese in agonia, abbiamo perso ogni primato, ogni eccellenza tranne la scuola. Se rinunciamo a quella non c'è scampo».

E perché allora la tendenza è abbandonare lo studio delle lingue antiche?
«Un po' perché vogliamo spappagallare l'estero, un po' perché siamo succubi di un sistema che, volendoci trasformare in consumatori e sudditi, non può che avversare il pensiero critico e gli studi umanistici in cui esso si produce. Le lingue antiche hanno l'aggravante che sono faticose, richiedono pazienza, sono a rischio di insuccesso. Cosa non prevista dai miti di oggi».

Quando si è innamorato del greco?
«In quarta ginnasio, a prima vista. È come quando ci si innamora di una persona: nessuno sa perché. L'autore preferito? Banalissimo: Omero».
17 giugno 2019 (modifica il 17 giugno 2019 | 22:20)
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