FAR CRESCERE i pomodori in cucina: dalla pianta al piatto, senza passaggi intermedi. A centimetri zero. Ci prova Bulbo: una startup nata due anni fa. È il 2012, quando Lorenzo Antonioni, designer ventinovenne, dopo anni di studio al Politecnico di Milano, decide di tornare nella sua terra d'origine, Bologna. Quattro amici, lavoratori precari, e un'idea: applicare la tecnologia usata nelle serre per sostituire il sole, o incrementare le ore di luce, anche in casa. Alle spalle, dei buoni risultati ottenuti in fase sperimentale con la Facoltà di Agraria dell'università bolognese e nessuna voglia di mollare: via, si parte. Obiettivo: la coltivazione domestica.
Racconta Sara Pellegrini, architetto e responsabile della comunicazione: "Abbiamo iniziato quest'avventura per darci da fare, non arrenderci e cercare di valorizzare il made in Italy. Il nostro è stato anche un viaggio alla scoperta delle aziende locali di qualità: dalla ceramica di Faenza, all'elettronica emiliana". Tutto per mettere insieme delle lampade a Led, che sfruttano la luce bianca e le frequenze rosse e blu, cioè quelle assorbite dalle piante durante la fotosintesi. In particolare, le prime sono necessarie durante la fase vegetativa, mentre le seconde stimolano la produzione di fiori e frutti. "Una tecnica che ci permette di far crescere, senza inquinamento luminoso, ortaggi compatti cinquanta centimetri. Alcuni pensano che siano delle dimensioni restrittive, in realtà ci rientrano tantissime varietà, come insalate, spinaci, pomodori, peperoni, fagiolini e fragole, oltre che tutte le piante aromatiche". Il prezzo varia, dalle lampade più piccole che costano circa 150 euro, a quelle più grandi da 300 euro. "Per quel che riguarda l'elettricità, bisogna pensare che si tratta di luci ad alto risparmio energetico. La lampada più piccola consuma sette watt, come un router wi-fi o due televisori in standby. Testato: per crescere una pianta di basilico per fare un pesto, abbiamo impiegato un mese e speso sedici centesimi di euro".
Attenzione però: "Autosufficienza non è il nostro motto", aggiunge Antonioni. "L'obiettivo è educare i cittadini al rispetto della natura, attraverso l'esperienza diretta. Con Bulbo offriamo la possibilità di veder crescere e nascere una pianta, che ha bisogno di cure e attenzioni, anche a chi vive, e ha sempre vissuto, in città. E non sa, ad esempio, che cosa significhi la stagionalità degli alimenti o il ritmo naturale che serve per trasformare un seme in un'insalata di pomodori. Un piccolo esperimento educativo. Basti pensare che nella letteratura classica l'orto non è mai stato considerato solo come uno spazio per produrre del cibo, ma anche un luogo di meditazione".
Bulbo non è la sola startup a spingere in tale direzione. Anzi, negli Stati Uniti hanno fatto, in via sperimentale, dei passi in più. Coltivare frutta e verdura nei centri urbani, in palazzi, ristoranti e case. Sembra un sogno da autarchici, ma potrebbe presto diventare una necessità. Secondo l'ultima stima delle Nazioni Unite, infatti, più della metà della popolazione mondiale vive oggi nelle città. Una proporzione destinata a crescere del 70 per cento nel 2050. Con il conseguente rischio di rimanere senza risorse sufficienti. Al Massachusetts Institute of Technology di Boston sono due i progetti che provano a risolvere il problema: sfruttano tecnologie simili però hanno approcci diversi. City Farm, sviluppato all'interno del Media Lab, ha come obiettivo quello di affiancare agli edifici grandi fattorie verticali. "Sono molto interessato all'alta produttività", ha confessato il fondatore, Caleb Harper, al settimanale britannico 'The Economist'. E per raggiungerla i suoi orti di città useranno la luce del sole e le lampade a Led. Mentre le piante cresceranno sia grazie alla coltivazione idroponica, dentro basse tinozze d'acqua con l'aggiunta di minerali, sia grazie all'aeroponica: un metodo che richiede un sistema d'irrigazione particolare, ma è in grado di far risparmiare notevoli risorse. Tanto che il primo prototipo, creato proprio nei laboratori del Mit, avrebbe bisogno - assicurano - solo di un terzo della manutenzione necessaria per le coltivazioni normali. Un risultato notevole che sembra aver acceso l'interesse di Google, pronto a integrare il sistema nelle sue caffetterie aziendali.
Ancora più radicale è la visione di Jame Byron e Gabe Blanchet, due ex studenti dell'università di ricerca americana, che hanno messo in piedi una loro startup. Con il sogno di decentralizzare totalmente la produzione del cibo. La loro compagnia, Grove Labs, ha racimolato i finanziamenti per mettere a punto un'apparecchiatura capace di allevare pesci e coltivare ortaggi biologici, persino nelle cucine più piccole e buie. Funziona così. Nel loro sistema, chiamato "aquaponics", i pesci forniscono utili rifiuti organici che i batteri nitrificanti trasformano in concime per le piante. Queste ultime, a loro volta, filtrano l'acqua dagli eccessi di nitrogeno e la restituiscono pulita ai pesci. Anche qui sensori smart e luci a Led creano le condizioni climatiche ottimali. Come saranno usate? Byron e Gabe stanno progettando di vendere dei kit, in grado di mettere in piedi fattorie su misura di grandezza variabile, in base alle esigenze degli utenti, e tutte controllate da un'app per smartphone.
Precisa Blanchet a Repubblica.it: "Ma il nostro intento non è sostituire le fattorie naturali. Anzi, penso che porteremo avanti il nostro progetto in collaborazione con delle piccole fattorie collocate in tutto il mondo. Non solo: fin da ora incoraggiamo le persone a coltivare cibo e giardini all'aperto, laddove è possibile. Lo scopo è, invece, dare accesso a cibo sano, sostenibile e locale a tutta la popolazione del pianeta".
Racconta Sara Pellegrini, architetto e responsabile della comunicazione: "Abbiamo iniziato quest'avventura per darci da fare, non arrenderci e cercare di valorizzare il made in Italy. Il nostro è stato anche un viaggio alla scoperta delle aziende locali di qualità: dalla ceramica di Faenza, all'elettronica emiliana". Tutto per mettere insieme delle lampade a Led, che sfruttano la luce bianca e le frequenze rosse e blu, cioè quelle assorbite dalle piante durante la fotosintesi. In particolare, le prime sono necessarie durante la fase vegetativa, mentre le seconde stimolano la produzione di fiori e frutti. "Una tecnica che ci permette di far crescere, senza inquinamento luminoso, ortaggi compatti cinquanta centimetri. Alcuni pensano che siano delle dimensioni restrittive, in realtà ci rientrano tantissime varietà, come insalate, spinaci, pomodori, peperoni, fagiolini e fragole, oltre che tutte le piante aromatiche". Il prezzo varia, dalle lampade più piccole che costano circa 150 euro, a quelle più grandi da 300 euro. "Per quel che riguarda l'elettricità, bisogna pensare che si tratta di luci ad alto risparmio energetico. La lampada più piccola consuma sette watt, come un router wi-fi o due televisori in standby. Testato: per crescere una pianta di basilico per fare un pesto, abbiamo impiegato un mese e speso sedici centesimi di euro".
Attenzione però: "Autosufficienza non è il nostro motto", aggiunge Antonioni. "L'obiettivo è educare i cittadini al rispetto della natura, attraverso l'esperienza diretta. Con Bulbo offriamo la possibilità di veder crescere e nascere una pianta, che ha bisogno di cure e attenzioni, anche a chi vive, e ha sempre vissuto, in città. E non sa, ad esempio, che cosa significhi la stagionalità degli alimenti o il ritmo naturale che serve per trasformare un seme in un'insalata di pomodori. Un piccolo esperimento educativo. Basti pensare che nella letteratura classica l'orto non è mai stato considerato solo come uno spazio per produrre del cibo, ma anche un luogo di meditazione".
Bulbo non è la sola startup a spingere in tale direzione. Anzi, negli Stati Uniti hanno fatto, in via sperimentale, dei passi in più. Coltivare frutta e verdura nei centri urbani, in palazzi, ristoranti e case. Sembra un sogno da autarchici, ma potrebbe presto diventare una necessità. Secondo l'ultima stima delle Nazioni Unite, infatti, più della metà della popolazione mondiale vive oggi nelle città. Una proporzione destinata a crescere del 70 per cento nel 2050. Con il conseguente rischio di rimanere senza risorse sufficienti. Al Massachusetts Institute of Technology di Boston sono due i progetti che provano a risolvere il problema: sfruttano tecnologie simili però hanno approcci diversi. City Farm, sviluppato all'interno del Media Lab, ha come obiettivo quello di affiancare agli edifici grandi fattorie verticali. "Sono molto interessato all'alta produttività", ha confessato il fondatore, Caleb Harper, al settimanale britannico 'The Economist'. E per raggiungerla i suoi orti di città useranno la luce del sole e le lampade a Led. Mentre le piante cresceranno sia grazie alla coltivazione idroponica, dentro basse tinozze d'acqua con l'aggiunta di minerali, sia grazie all'aeroponica: un metodo che richiede un sistema d'irrigazione particolare, ma è in grado di far risparmiare notevoli risorse. Tanto che il primo prototipo, creato proprio nei laboratori del Mit, avrebbe bisogno - assicurano - solo di un terzo della manutenzione necessaria per le coltivazioni normali. Un risultato notevole che sembra aver acceso l'interesse di Google, pronto a integrare il sistema nelle sue caffetterie aziendali.
Ancora più radicale è la visione di Jame Byron e Gabe Blanchet, due ex studenti dell'università di ricerca americana, che hanno messo in piedi una loro startup. Con il sogno di decentralizzare totalmente la produzione del cibo. La loro compagnia, Grove Labs, ha racimolato i finanziamenti per mettere a punto un'apparecchiatura capace di allevare pesci e coltivare ortaggi biologici, persino nelle cucine più piccole e buie. Funziona così. Nel loro sistema, chiamato "aquaponics", i pesci forniscono utili rifiuti organici che i batteri nitrificanti trasformano in concime per le piante. Queste ultime, a loro volta, filtrano l'acqua dagli eccessi di nitrogeno e la restituiscono pulita ai pesci. Anche qui sensori smart e luci a Led creano le condizioni climatiche ottimali. Come saranno usate? Byron e Gabe stanno progettando di vendere dei kit, in grado di mettere in piedi fattorie su misura di grandezza variabile, in base alle esigenze degli utenti, e tutte controllate da un'app per smartphone.
Precisa Blanchet a Repubblica.it: "Ma il nostro intento non è sostituire le fattorie naturali. Anzi, penso che porteremo avanti il nostro progetto in collaborazione con delle piccole fattorie collocate in tutto il mondo. Non solo: fin da ora incoraggiamo le persone a coltivare cibo e giardini all'aperto, laddove è possibile. Lo scopo è, invece, dare accesso a cibo sano, sostenibile e locale a tutta la popolazione del pianeta".
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