Niente carne, molta frutta. Poco formaggio, un po' di patate. Ok per il riso, ma piano con il pesce. Ogni volta che ci sediamo a tavola possiamo scegliere tra alimenti la cui produzione è più o meno nociva per il pianeta
(28 June 2010)Sogliola fresca 3,3, aragosta 20, gambero surgelato 10. Non sono i prezzi all'etto di un mercato del pesce, ma i chili di CO2 emessi per ogni chilo di ciascun prodotto, calcolato per tutto il suo ciclo di vita, dalla pesca (o allevamento), al consumo e allo smaltimento. Che danno un'idea di quanto la nostra scelta possa avere un impatto sull'ambiente. Sono numeri, forniti dal Life Cycle Assessment Food Database del ministero della Pesca e dell'Agricoltura danese che i ricercatori del Barilla Center for Food & Nutrition (Bcfn) di Parma hanno messo insieme ai dati di tutte le ricerche pubbliche condotte negli ultimi anni sull'impatto ambientale dei diversi alimenti. I risultati - che saranno presentati a Milano al convegno "Alimentazione e ambiente: sano per te, sostenibile per il pianeta" (in live streaming sul sito del Bcfn: www.barillacfn.com) - non riguardano solo gli effetti stranoti della carne bovina, ma quelli della maggior parte dei cibi che si trovano nel nostro frigo e nelle nostre dispense. E ci dicono, per esempio, che tra scegliere gamberetti freschi e quelli surgelati c'è una differenza quantificabile in più di sette chili di gas serra.
Perché è ormai opinione condivisa tra gli esperti che si debba tenere in debito conto quanta CO2 consumiamo con i nostri pasti. E che si debba cominciare a considerare anche altre conseguenze ambientali, come, ad esempio, la quantità d'acqua necessaria alle produzioni. Ma questi parametri, di per sé, non sono sufficienti a orientare le scelte alimentari che, ovviamente, devono tener conto dell'impatto sulla salute dell'alimentazione. Per questo, i ricercatori del Bcfn sono andati oltre la raccolta e l'analisi delle informazioni a oggi disponibili sull'impronta ecologica: hanno annotato i prodotti dal più eco al più invasivo; confrontato l'impronta ecologica all'impronta della salute. E scritto una piramide molto simile alla piramide alimentare della dieta mediterranea, ma invertita.
Affiancando le due figure si osserva come i cibi che secondo le indicazioni internazionali dovremmo mangiare più spesso siano anche quelli con minor impatto ambientale. Senza però limitarsi a dire che frutta e verdura sono l'optimun e la carne è il diavolo. No, i ricercatori sono scesi nel dettaglio. E ci dicono, ad esempio, che per produrre un chilo di formaggio si emettono circa 9 chili di CO2 e servono 5 mila litri d'acqua. Una quantità equivalente di yogurt, invece, comporta un chilo di anidride carbonica e il consumo di mille litri di acqua. Un comportamento eco-friendly vorrebbe quindi che lo yogurt venisse consumato più frequentemente del formaggio. Proprio come consigliato dai nutrizionisti. La coincidenza esiste per la maggior parte delle categorie.
Per capire bene il senso della doppia piramide bisogna innanzitutto tenere conto che il prezzo che la Terra paga per sfamarci è calcolato sulla base di tre indicatori: la Carbon Footprint, che stima la quantità di CO2 equivalente emessa durante tutto il ciclo di vita di un alimento, la Water Footprint che calcola l'acqua consumata o inquinata (e della cui stima si occupa l'omonima organizzazione olandese non profit). E l'Ecological Footprint, che dà una misura di quanti ettari di terra sono necessari per rigenerare le risorse consumate e per assorbire i rifiuti prodotti: attualmente, secondo l'ultimo rapporto del Global Footprint Network, pubblicato lo scorso dicembre, stiamo "mangiando" le risorse di un pianeta grande 1,3 volte la Terra. Significa che per rigenerare quanto consumato in un anno occorrono circa 16 mesi. Tra i vari paesi, le impronte ecologiche più grandi sono quelle degli Emirati Arabi Uniti e degli Stati Uniti. L'Italia è in ventiquattresima posizione, ma le dimensioni del terreno consumato in un anno da ciascuno di noi sono di tutto rispetto: equivalgono a circa sei campi da calcio.
La piramide ambientale tiene conto però solo dell'Ecological Footprint. Per due motivi: è il più completo (considera anche la CO2) ed è facile da visualizzare. Va detto, inoltre, che per molti alimenti non esistono al momento dati sul consumo di acqua. Per le diverse specie di pesce, crostacei e molluschi allevati in acquacoltura, per esempio, la stima risulta troppo complicata, dovendo considerare il ricambio delle vasche e tutta l'acqua utilizzata nel ciclo di vita del mangime. Ancora più complicato stimare quanta ne consuma l'industria della pesca, visto che non è chiaro neanche su cosa raccogliere dati. E anche i numeri forniti dalla Carbon Footprint sono parziali, perché i dati disponibili non tengono conto dei mix energetici dei vari paesi: noi sfruttiamo soprattutto gas, la Svezia l'idroelettrico, la Germania il carbone, ad esempio. Per questo, l'impronta della CO2 non solo è un indice che potrebbe variare molto a seconda di dove l'alimento è prodotto, ma non dà ragione dell'impatto di quelle nazioni come la Francia che utilizzano soprattutto l'energia nucleare.
Perché è ormai opinione condivisa tra gli esperti che si debba tenere in debito conto quanta CO2 consumiamo con i nostri pasti. E che si debba cominciare a considerare anche altre conseguenze ambientali, come, ad esempio, la quantità d'acqua necessaria alle produzioni. Ma questi parametri, di per sé, non sono sufficienti a orientare le scelte alimentari che, ovviamente, devono tener conto dell'impatto sulla salute dell'alimentazione. Per questo, i ricercatori del Bcfn sono andati oltre la raccolta e l'analisi delle informazioni a oggi disponibili sull'impronta ecologica: hanno annotato i prodotti dal più eco al più invasivo; confrontato l'impronta ecologica all'impronta della salute. E scritto una piramide molto simile alla piramide alimentare della dieta mediterranea, ma invertita.
Per capire bene il senso della doppia piramide bisogna innanzitutto tenere conto che il prezzo che la Terra paga per sfamarci è calcolato sulla base di tre indicatori: la Carbon Footprint, che stima la quantità di CO2 equivalente emessa durante tutto il ciclo di vita di un alimento, la Water Footprint che calcola l'acqua consumata o inquinata (e della cui stima si occupa l'omonima organizzazione olandese non profit). E l'Ecological Footprint, che dà una misura di quanti ettari di terra sono necessari per rigenerare le risorse consumate e per assorbire i rifiuti prodotti: attualmente, secondo l'ultimo rapporto del Global Footprint Network, pubblicato lo scorso dicembre, stiamo "mangiando" le risorse di un pianeta grande 1,3 volte la Terra. Significa che per rigenerare quanto consumato in un anno occorrono circa 16 mesi. Tra i vari paesi, le impronte ecologiche più grandi sono quelle degli Emirati Arabi Uniti e degli Stati Uniti. L'Italia è in ventiquattresima posizione, ma le dimensioni del terreno consumato in un anno da ciascuno di noi sono di tutto rispetto: equivalgono a circa sei campi da calcio.
La piramide ambientale tiene conto però solo dell'Ecological Footprint. Per due motivi: è il più completo (considera anche la CO2) ed è facile da visualizzare. Va detto, inoltre, che per molti alimenti non esistono al momento dati sul consumo di acqua. Per le diverse specie di pesce, crostacei e molluschi allevati in acquacoltura, per esempio, la stima risulta troppo complicata, dovendo considerare il ricambio delle vasche e tutta l'acqua utilizzata nel ciclo di vita del mangime. Ancora più complicato stimare quanta ne consuma l'industria della pesca, visto che non è chiaro neanche su cosa raccogliere dati. E anche i numeri forniti dalla Carbon Footprint sono parziali, perché i dati disponibili non tengono conto dei mix energetici dei vari paesi: noi sfruttiamo soprattutto gas, la Svezia l'idroelettrico, la Germania il carbone, ad esempio. Per questo, l'impronta della CO2 non solo è un indice che potrebbe variare molto a seconda di dove l'alimento è prodotto, ma non dà ragione dell'impatto di quelle nazioni come la Francia che utilizzano soprattutto l'energia nucleare.
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