La felicità è altrove
Di Alain De Botton
(da L'Espresso - n.1 anno 2010)
L'idea che il lavoro sia il fondamento della nostra identità è recente ed è bizzarra.
Parola dello scrittore inglese Nel mondo moderno non passa quasi settimana senza che esploda una 'crisi di carriera'. Il più delle volte accade di domenica sera: è in quei momenti che si percepisce con più chiarezza - e con dolore - il divario tra le proprie ambizioni e la realtà professionale.
La ragione principale di queste crisi sta nelle aspettative. Nel mondo del lavoro d'ufficio non sorprende tanto il tempo che dedichiamo alle varie pratiche, né le fantastiche macchine di cui ci serviamo, quanto la diffusa aspettativa di poter trovare la felicità in questa occupazione. E quindi tendiamo a metterla al centro della nostra vita e del nostro desiderio di realizzarci. Ad esempio, a ogni nuovo contatto ci interessiamo per prima cosa non al luogo di provenienza della persona appena conosciuta, o alla sua famiglia d'origine, bensì alla sua attività, al suo lavoro: è in questa informazione che pensiamo di poter individuare il nucleo essenziale della sua identità.
Ovviamente, non è stato sempre così. Per migliaia di anni, prima dell'invenzione dello spreadsheet Excell, il lavoro era considerato come nient'altro che una scocciatura inevitabile; si cercava di sbrigarlo nel più breve tempo possibile, per poi evadere nell'immaginario, con l'aiuto dell'alcol o dell'esaltazione religiosa. Solo a partire dalla metà del Settecento si è incominciato a pensare di poter vedere nell'impegno lavorativo il fulcro delle proprie aspirazioni, dei propri sogni di
felicità.
Si nota qui un curioso parallelo con l'idea che si aveva un tempo del matrimonio, altro campo in cui le crisi ricorrenti, anche se non avvengono necessariamente di domenica, sono difficilmente evitabili. Prima dell'era moderna si pensava in genere che innamorarsi e sposarsi fossero due cose essenzialmente diverse. Ci si sposava con fini di pura convenienza, per avere qualcuno a cui lasciare l'azienda agricola familiare, o per assicurarsi una continuità dinastica. C'erano poi le amanti, che stavano al matrimonio come gli hobby stanno al posto di lavoro: era un modo per non essere totalmente schiacciati dalla disaffezione. Ma all'improvviso, verso la metà del Settecento, si è incominciato a mettere in discussione sia le relazioni extra-coniugali che gli hobby.
Oggi siamo dunque eredi di due credenze tanto bizzarre quanto ambiziose: l'idea di poter essere innamorati della propria moglie, e quella di trascorrere in ufficio una vita di lavoro piacevole. Non riusciamo neppure più a immaginare di poter essere felici da disoccupati. Mentre al contrario, in un'epoca dominata dall'aristocrazia sembrava impossibile credere che da impiegati si potesse rimanere umani.
Perciò, quando in ufficio le cose non vanno bene è utile ricordare un punto fondamentale: la nostra identità si estende molto al di là di quanto si trova scritto sul nostro biglietto da visita professionale; eravamo esseri umani molto prima di avere un impiego, e continueremo a esserlo anche quando avremo deposto una volta per tutte i nostri attrezzi di lavoro. Mi ha molto colpito scoprire che per Sant'Agostino è peccato giudicare un uomo dal suo status. In altri termini: quando abbiamo qualche guaio sul lavoro dovremmo saper distinguere tra l'attività che svolgiamo e la nostrapercezione dei valori.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
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